«Proprio a te doveva accadere di concentrare tutta la vita su un punto, e poi scoprire che tutto puoi fare tranne vivere quel punto»

È il 6 ottobre del 1935 quando Cesare Pavese inizia a tenere un diario in cui annota i pensieri sul suo essere poeta, scrittore e soprattutto uomo, creando un profondo percorso autobiografico e di autoanalisi che terminerà nel 1950, anno in cui si toglierà la vita. L’opera uscirà postuma, due anni dopo la sua morte. 

Il Mestiere di vivere nasce durante il confino di Pavese a Brancaleone Calabro, dove era stato relegato da parte del regime fascista e dove rimase fino al 1936. 

Attraverso il proprio vissuto, lo scrittore si interroga sul senso della vita, della morte, del suicidio e dell’arte, universalizzando ciò che egli vive in prima persona, dando vita ad un’opera che ha come immediato referente letterario lo Zibaldone leopardiano.

Nelle quasi quattrocento pagine risultanti, l’elemento preponderante è quello letterario, ma presto il carattere degli appunti, datati e organizzati per anni, si accorderà a una più generale speculazione su vita e lavoro. Si disegna così un profilo dell’articolato rapporto che Pavese va instaurando con la letteratura, considerata specchio dell’esistenza, strumento di esplorazione di sé e dell’altro, ma soprattutto lavoro giornaliero. Per dare un senso alla vita, egli deve dare un senso al suo mestiere di scrittore e poeta:

«La letteratura è una difesa contro le offese della vita».

L’arte nasce dal tormento e dalla sofferenza ma ha, allo stesso tempo, la capacità di offrire serenità e pace. Come Pavese annota il 19 settembre del 1938:

«Gli uomini che hanno una tempestosa vita interiore e non cercano sfogo nei discorsi o nella scrittura sono semplicemente uomini che non hanno una tempestosa vita interiore».

Fino al 15 marzo 1936, il diario è un insieme di pensieri e riflessioni sulla propria poetica e sulle sue origini; Pavese sente in particolare l’esaurirsi della poesia e un avvicinamento alla prosa definito come un nuovo inizio. La sua scrittura è infatti costituita dalla gioia nei confronti di “nuovi inizi”, come leggiamo in uno dei passi più belli:

«L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante. Quando manca questo senso – prigione, malattia, abitudine, stupidità –, si vorrebbe morire».

Dal 1936 Pavese fa un vero e proprio esame di coscienza, e qui emerge tutto il suo dolore e la sofferenza per il tradimento dell’amata. L’opprimente senso di angoscia e il pensiero fisso alla morte portano a far sì che la solitudine si impossessi dell’animo umano: 

«Passavo la sera seduto davanti allo specchio per tenermi compagnia».

Neppure l’arte, la scrittura, offre più motivazioni sufficienti per continuare a vivere, e il senso di solitudine dilaga; è in questa dimensione che si inserisce il vero disagio esistenziale che lo condurrà al suicidio. 

Forse cercare la morte è stata la sua personale rivolta contro una vita che non ha saputo essere all’altezza delle sue aspettative di poeta e, per questo motivo, è bene concludere questa analisi non con le parole di Pavese ma con quelle che la sua cara amica Natalia Ginzburg gli dedicò dopo la tragica morte:

«Guardò anche oltre la sua vita, nei nostri giorni futuri, guardò come si sarebbe comportata la gente, nei confronti dei suoi libri e della sua memoria. Guardò oltre la morte, come quelli che amano la vita e non sanno staccarsene, e pur pensando alla morte vanno immaginando non la morte, ma la vita».

Ilde Sambrotta

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