Ci sono diversi modi in cui poter rappresentare e immortalare il momento del distacco. Indubbiamente, nella maggior parte dei casi, non si tratta di un’impresa semplice: l’atto della separazione, molto probabilmente successivo a una parola o un’azione determinante, lascia intravedere sui volti e sui corpi dei “separati” le conseguenze visibili del suo avvenimento. Come spiega emblematicamente l’artista, succede che capiti che chi è coinvolto “Non comprende esattamente che cosa accada – Ma anche quando lei è scomparsa avverte fino a che punto i fili sottili della sua chioma siano ancora allacciati al suo cuore – che sanguina – e brucia come una piaga insanabile”.
Protagonista di oggi è un dipinto di Munch dal titolo “Separazione” (1896), un olio su tela di stampo espressionista, che riflette in qualche modo il distacco prematuro dalla madre, morta quando l’artista aveva solo cinque anni. Ad occupare la scena quasi per intero sono, infatti, una figura maschile e una femminile, e non sfugge indubbiamente agli occhi dell’attento osservatore come questi due protagonisti siano rappresentati in una maniera totalmente differente: sono rispettivamente la vittima e il carnefice, la sofferenza e il sollievo, la sensibilità e la razionalità estrema.
In particolare, la figura femminile sembra rivestire per Munch un’importanza cruciale ma, allo stesso tempo, pare rappresentare un motivo di estremo dolore, di angoscia e tormento. Questa discrepanza è visibile già con un primo, rapido sguardo al dipinto: è evidente, infatti, il forte contrasto tra il modo in cui le pennellate disegnano la figura femminile, così sinuosa e apparentemente delicata, nella sua veste candida e nelle fattezze quasi angeliche, e l’atto in cui la donna stessa viene immortalata. Essa è colta nel momento dell’abbandono dell’amato, e quest’ultimo, distrutto dalla sofferenza, si tocca il petto e, metaforicamente, il cuore sanguinante.
Edvard Munch (Løten, 12 dicembre 1863 – Oslo, 23 gennaio 1944), pittore norvegese tra i massimi esponenti della corrente espressionista, si avvicinò all’arte quando, dopo una serie di disgrazie familiari, trovò in essa una sorta di rifugio, di distrazione, nonostante l’ambiente in cui rimase fosse piuttosto malinconico e a tratti macabro. Ad influenzare il suo modo di rappresentare fu, probabilmente, anche la formazione scelta per Edvard dal padre, che lo avviò alla dimensione horror-psicologica dello scrittore statunitense Edgar Allan Poe, e in generale la sua arte risultò spesso pervasa da una vena malinconica e quasi struggente.
Nel dipinto in questione è ravvisabile questa tendenza, che si esplica nell’atto rappresentato e nel titolo dell’opera stessa: il momento della separazione è raffigurato come un attimo doloroso, talmente tanto da provocare un malessere non solo psicologico ma anche e soprattutto fisico, quindi ben visibile. La particolarità del quadro sta proprio in questo, e soprattutto nel fatto che tale sofferenza struggente non sia ravvisabile tanto nell’espressione della figura maschile, quanto piuttosto nella rappresentazione di un elemento solitamente celato, il cuore, per di più sanguinante, come emblema del dolore fisico provato.
Chiara Pirani