Ho provato anch’io.
È stata tutta una guerra
d’unghie. Ma ora so. Nessuno
potrà mai perforare
il muro della terra.

Nel 1975 esce Il muro della terra, raccolta che inaugura l’ultima stagione poetica di Giorgio Caproni, interamente focalizzato nella vana ricerca di un fondamento che dia senso all’esistenza. La vanità del tentativo è evidente fin dal titolo, di ispirazione dantesca, che l’autore spiega affermando: «Questo muro della terra evidentemente in Dante non è altro che il muro di cinta della città di Dite; per me, viceversa, significa il limite che incontra, ad un certo momento, la ragione umana […]». Il muro di Caproni altro non è che il muro che circonda il nostro pianeta e non c’è qui nessuna città all’orizzonte. L’immagine del muro richiama inoltre uno dei fondamentali emblemi della poesia montaliana, lo scalcinato muro che non permette di soddisfare la capacità conoscitiva dell’uomo che, tendendo al di là di tale limite per attingere alla verità, è condannato a un’impossibilità di valicare la barriera.

La raccolta è articolata in tredici sezioni, alcune delle quali composte da un unico testo o da soli due componimenti; anche il linguaggio, caratterizzato da silenzi, spazi bianchi e improvvise cesure, fa emergere le proprie mancanze e fallimenti.

«Confine» diceva il cartello.

Cercai la dogana. Non c’era. 

Non vidi, dietro il cancello, 

ombra di terra straniera.

È questa una poesia che deve essere letta secondo il suo piano allegorico; non esiste una realtà sensoriale con un cartello e una dogana, ma una creazione razionale di tali luoghi, che a loro volta rimandano sempre a quell’impossibilità di vedere e percepire oltre i propri sensi. Cadono le certezze, si giunge davanti a un confine che cancella ogni distinzione tra ciò che si ha alle spalle e ciò che si prospetta. 

Un uomo solo,

chiuso nella sua stanza.

Con tutte le sue ragioni.

Tutti i suoi torti.

Solo in una stanza vuota,

a parlare. Ai morti.

Caproni descrive qui una condizione esistenziale di un uomo immerso nella solitudine di una stanza e il cui unico contatto possibile è quello con i morti. È questa la condizione dell’uomo al di qua del “muro della terra”.

È un viaggio dantesco quello che Caproni sta intraprendendo, ma non c’è qui un Virgilio che giunge in aiuto; le uniche figure che incontriamo in questa raccolta sono immagini che ripetono lo smarrimento del poeta, che lo accentuano conferendo un forte senso di spaesamento.

La sezione dal titolo Bisogno di guida ha come tema l’assenza delle assenze, ovvero la scomparsa di Dio che porta alle estreme conseguenze lo smarrimento e l’incertezza di Caproni che si carica anche di pieghe comico-grottesche:

«Piaccia o non piaccia!»

disse. «Ma se Dio fa tanto,»

disse, «di non esistere, io,

quant’è vero Iddio, a Dio 

io gli spacco la Faccia».

È la rappresentazione dello stato di solitudine e abbandono in cui versa l’uomo contemporaneo, privo di guide in grado di soccorrerlo nella selva oscura del disorientamento che assedia la mente.

In una prospettiva del genere, dove sembra non esserci una via di uscita, dove quel muro non può essere superato, rimane soltanto di approfondire questa condizione. Al poeta non resta che dire e ridire quest’unica verità triste all’infinito, declinandola in modi diversi. E se Caproni ritenesse la ragione umana uno strumento del tutto inadeguato a comprendere il mondo, il risultato sarebbe il silenzio totale. È Caproni stesso ad affermare che «non c’è il nulla, ma certamente c’è l’inconoscibile, c’è l’altra terra ignota, ci sono quei luoghi giurisdizionali dove alla nostra ragione non è lecito entrare e capire. Noi chiamiamo “nulla” ciò che non possiamo conoscere».

Sono tornato là

dove non ero mai stato.

Nulla, da come fu, è mutato.

Sul tavolo (sull’incerato

a quadretti) ammezzato

ho ritrovato il bicchiere

mai riempito. Tutto 

è ancora rimasto quale

mai l’avevo lasciato.

Ilde Sambrotta

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