L’arte che si nasconde nel quotidiano, o, in un certo senso, l’arte che diventa una sorta di provocazione, per rendere l’ordinario straordinario: è questa la concezione del termine racchiusa nelle opere di Burri, uno dei massimi esponenti dell’arte informale, che nasce sul finire degli anni ‘40 e “mette in scena” il rifiuto delle forme, sia figurative che astratte, in favore di una nuova modalità comunicativa, volta a valorizzare la materia in maniera diretta e il rapporto dell’artista con essa. Si può notare, infatti, come Burri, all’interno delle sue opere, riesca magistralmente a modellare la materia e a farla diventare uno strumento di comunicazione potentissimo.
L’opera in questione, “Sacco e rosso”, datata 1954 e conservata alla Tate Modern di Londra, presenta una sovrapposizione tra quelli che l’artista interpreta come due veri e propri colori: “sacco” e “rosso”, appunto, nel senso che sopra uno sfondo rosso brillante Burri inserisce un vecchio tessuto di sacco bucato e rattoppato, per farlo diventare un altro colore da sovrapporre alla base. Se ne ottiene un effetto finale fortemente equilibrato, considerando che la distribuzione dei due “colori” è pressoché omogenea, nonostante vi sia una netta differenza, a livello visivo e soprattutto tattile, tra le due parti che compongono l’opera: una liscia e armonica; l’altra ruvida, diseguale e irregolare.
Per raggiungere risultati di notevole impatto, l’artista utilizzò, infatti, molto spesso materiali come i sacchi, i ferri, i legni, le plastiche bruciate o l’argilla, ottenendo dalla loro sapiente lavorazione un effetto sull’osservatore molto interessante: chi guarda, infatti, sembra invitato a prendere coscienza del fatto che ciò che sta osservando altro non è che una rappresentazione della realtà nuda e cruda, senza formalismi né fronzoli, pronta per essere fruita e, addirittura, “toccata”. Ciò implica, in un certo senso, un grado di partecipazione piuttosto elevato da parte dell’osservatore stesso, che comprende come l’arte corrisponda spesso al valore delle mani di chi la realizza e non a quello dell’opera in sé.
Alberto Burri (Città di Castello, 12 marzo 1915 – Nizza, 13 febbraio 1995), tra i “padri” dell’arte informale, si avvicinò alla pittura, in un primo momento, dopo un periodo di detenzione in Texas per essere stato annoverato tra i fascisti irriducibili, dal momento che aveva rifiutato di firmare una dichiarazione di collaborazione. Da menzionare, tra le sue serie più famose c’è quella dei “Sacchi”, a cui lavorò nella prima metà degli anni ‘50, ma il periodo di massimo splendore artistico venne raggiunto indubbiamente nel 1953, quando arrivò a godere di fama internazionale con la sua prima personale americana.
Pare che ad influenzare Burri nell’utilizzo reiterato di materiali come i sacchi sia stata la sua esperienza di medico: dal momento che, dopo essersi laureato in medicina, fu arruolato nell’esercito come sottotenente medico di complemento, è possibile che la sperimentazione con materiali del genere gli ricordasse le bende con cui tamponava le ferite o, addirittura, la mutilazione dei corpi in guerra. Ne deriva un forte senso di inquietudine, che traspare dalle opere dell’artista e, molto probabilmente, proprio attraverso i materiali utilizzati, l’artista stesso tenta di manifestare la propria.
Chiara Pirani