Oggi siamo abituati a pensare all’arte africana come ad un qualcosa di semplice, stilizzato ed essenziale, tipico di tutte quelle civiltà tribali che caratterizzano non solo il continente più “antico”, ma anche altri luoghi remoti della Terra. Tuttavia, non è sempre così. Infatti, come di sovente capita, alcune scoperte tendono a stravolgere quello che crediamo di conoscere su una cultura, le usanze e la storia di un popolo.
Un esempio molto importante è di certo la famosa “Testa di Ife”, appartenente ad un gruppo di 13 teste scoperte nel 1938 all’interno di un palazzo reale a Ife, Nigeria, che hanno sbalordito il mondo intero con la loro bellezza, raffinatezza e tecnica di realizzazione.
Situata presso la sezione africana del British Museum, la scultura, realizzata in bronzo con tecnica a cera persa, si presenta leggermente più piccola del naturale. Il volto è un ovale aggraziato, solcato da incisioni verticali così simmetriche che i lineamenti vengono valorizzati anziché alterati. La bocca è circondata da fori il cui uso non è ancora chiaro, ma si pensa possano essere stati utilizzati per fissare un velo di perline, tipico delle persone del rango di oni (sovrano anziano), usanza che ancora oggi viene conservata, in quanto gli oni erano considerati persone diverse dai comuni esseri umani. Sul capo si trova una corona, composta da un alto diadema arricchito da perle e da una piuma che si innalza sulla sommità, conservando in parte la pittura rossa originale. La scultura non doveva essere a sé stante ma si pensa fosse imperniata su una struttura lignea, come lascerebbe presumere il foro di un chiodo nel collo.
Opera dal fortissimo impatto, presenta uno sguardo vigile, mentre gli alti zigomi e le labbra socchiuse lasciano intuire che fosse in procinto di parlare, dettagli eccezionali colti con superba maestria dall’artista, di cui non conosciamo l’identità.
È opinione diffusa che la statua rappresenti sicuramente un sovrano. Le fattezze del volto sono verosimili, ma vi è anche una idealizzazione, una trasformazione del volto. Questi sono stati modificati con un processo di astrazione per dare una maggiore impressione di compostezza all’opera. Dinnanzi a questa scultura ci si sente al cospetto di un sovrano, che emana la nobile aura di potere, di ieraticità. Tuttavia, quello che noi osserviamo, non è solo il volto di un uomo, ma è il volto di un intero popolo, di una cultura centenaria.
La scoperta delle teste creò non pochi problemi agli storici dell’arte europei, che trovavano impossibile e incomprensibile che una civiltà dell’Africa nera potesse essere in grado di produrre oggetti così raffinati. Difatti, durante la scoperta della prima testa presso il santuario alle porte di Ife nel 1910, l’antropologo Leo Frobenius fu talmente sbalordito della tecnica di realizzazione e della ricchezza dei dettagli che associò immediatamente l’opera ad una scuola di provenienza greca classica. Ovviamente non esistono né documenti, né tracce letterarie che lascino trasparire dei rapporti tra le due culture, quindi per risolvere il mistero Frobenius propose una chiave di lettura alquanto fantasiosa: la mitica isola di Atlantide doveva essere sprofondata nei pressi della Nigeria, e in tal modo i superstiti elleni giunti sulle coste africane dovevano essersi integrati nella popolazione, realizzando poi questa stupenda scultura. All’epoca vi era una conoscenza della cultura africana molto limitata. Artisti come Picasso o Matisse vedevano l’arte africana come un qualcosa di esuberante, frenetico, interiore e fortemente emotivo. Per tale ragione le teste, composte e razionali, frutto di un ambiente sofisticato e progredito alla stregua degli ambienti europei e asiatici, crearono tanto stupore.
Secondo una visione più realistica, le teste ritrovate a Ife non rispecchierebbero i canoni tipici dell’arte greca, come ad esempio la proporzione della testa, che qui corrisponderebbe a circa ¼ del corpo, contro 1/7 dell’arte classica. Altro elemento che avvalorerebbe questa tesi è il fatto che nell’arte africana la testa ha la predominanza sul corpo, in quanto dimora dell’anima, sede dell’identità e della comunicazione. Non è raro trovare tali accorgimenti anche in statue nostrane, come ad esempio il David di Michelangelo, che presenta la testa e le mani leggermente più grandi rispetto al resto del corpo.
Recenti studi hanno ricondotto la datazione alla metà del XV secolo, periodo in cui Ife era un fiorente centro politico, economico e spirituale, dove trovò ampio sviluppo il popolo Yoruba.
La scoperta delle teste restanti nel 1938 spazzò via ogni dubbio: si trattava di arte completamente locale. Da quel momento in poi accanto alla Grecia, a Roma, a Firenze e Parigi, vi fu anche la Nigeria, straordinario esempio di come un oggetto possa cambiare il concetto di un popolo e i pregiudizi su di esso.
Nella storia del mondo, il passato è sempre stato preso come emblema dell’identità degli Stati, e così come per questi anche l’arte ha il dovere di dirci chi siamo attraverso cosa eravamo e di farci trovare un posto nel mondo.
Tommaso Amato