La brusca entrata in scena di automobili e strade asfaltate in una delle prime sequenze di The Power of the Dog di Jane Campion colpisce lo spettatore con la forza di un piccolo shock. Un attimo prima il film si era aperto su una lunga introduzione ranchera a base di polvere, sudore e centinaia di capi di bestiame stile Il fiume rosso. Poi ha presentato i personaggi principali, riuniti fra cucina e sala da pranzo di un saloon di frontiera. In mezzo speroni che girano, banjo appesi ai muri, lazo intrecciati con budello di vacca. Ma non siamo più negli anni della Corsa all’Oro o delle guerre indiane. È il 1924 e questo è un mondo che sta cambiando.
Il confronto tra natura selvaggia e modernità che avanza è motivo principe del western in qualsiasi epoca lo si prenda, ma da un’epoca all’altra i suoi connotati cambiano in modo radicale. Dal pionierismo di John Ford, imbevuto dell’etica di un Destino Manifesto che profetizza la conquista della wilderness ad opera del nuovo popolo eletto che vi pianterà il seme della civiltà, si assiste – già nel tardo Ford e fino al picco incarnato da Peckinpah – a un ribaltamento in chiave meditativa e crepuscolare. Tocca all’eroe western, antico, incolto e dalle mani macchiate di sangue, cedere dolorosamente il passo a una nuova ondata di progresso sociale. La wilderness adesso è Lui, e si inizia a sentirne la mancanza.
Saga familiare sul conflitto fraterno tra due proprietari terrieri del Montana, uno (Jesse Plemons) “incivilitosi” in seguito al matrimonio con una vedova (Kirsten Dunst), l’altro (Benedict Cumberbatch) rabbiosamente attaccato ai modelli di vita dei tempi che furono, The Power of the Dog è tratto dal romanzo omonimo (1967) di Thomas Savage, scrittore tra i più originali e per lungo tempo sottovalutati della storia del western. Nato e cresciuto negli stessi ambienti rurali di cui scriveva e convolato a nozze con una donna nel tentativo di “curare” la propria omosessualità, a lui si devono alcuni dei ritratti più anticonvenzionali e sfaccettati di uomini in stetson, radiografati nelle loro insicurezze a confronto con l’Eterno Mascolino postulato dalla tradizione.
In parallelo, l’adattamento di Campion può dirsi ugualmente in dialogo disforico con una tradizione, quella di un genere – per sua stessa dichiarazione – sentito a lungo impenetrabile per una prospettiva femminile. Il suo discorso, ancora una volta dunque apertamente metacinematografico, si inserisce proprio nel solco di quel confronto tra modernità e tradizione, e più di ciò che vi aggiunge conta quello che toglie: il Mito. Il western è narrazione mitografica per eccellenza, che se ne racconti la nascita (mito di fondazione), la morte (elegia) o che lo si trasli in forme nuove (il grafismo superficiale e ultraterreno di Sergio Leone).
Se in The Power of the Dog il Mito non scompare del tutto – non può, ne andrebbe della possibilità stessa di esprimere una prospettiva sul genere – ve lo si trova però ridotto ai minimi termini, sotto forma di una vecchia sella venerata dal rude Phil Burbank (Cumberbatch, appropriato e simpaticissimo proprio perché fuori parte) il cui attaccamento per l’antico maestro di vita di frontiera “Bronco” Henry fonde insieme le sfumature nostalgiche e omoerotiche di tanta narrazione western. Esorcizzato e messo in scena come oggetto-feticcio, esso non guida più la narrazione ma scompare sullo sfondo di una ricostruzione period minuziosa e credibile che costituisce l’elemento di maggior originalità del film.
Lo sapevate? Nel West si cucinava e si imbandiva la tavola, si suonava il piano (evidente autocitazione), si davano ricevimenti in salotto, si studiava medicina e si sfogliavano riviste porno. Tutte cose non prescritte dal dottor Ford quando scrisse “Print the Legend” sulla ricetta. Da una parte The Power of the Dog arriva come uno sberleffo – e una presa di posizione ferocemente critica rispetto ai sottintesi politici di quella formula. Dall’altra, un gesto tanto sconsiderato apre nuovi spiragli e possibilità esplorative per quest’“unica arte americana” (Eastwood) che continua a fare il giro del mondo e del nostro immaginario. Anche di questo si nutre il cinema.
Lorenzo Meloni