Sono passati vent’anni dall’ultima volta in cui Paolo Sorrentino ha presentato un suo lungometraggio alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Nel 2001 il regista napoletano esordiva nella sezione Cinema del presente con L’uomo in più, opera ambientata nella sua città natale, che poi avrebbe abbandonato per esplorare altri angoli di mondo. Perlomeno fino ad oggi. Sorrentino torna al Lido (questa volta da regista affermato, tra i grandi nomi del Concorso ufficiale) e soprattutto riabbraccia l’ambiente partenopeo per insediarvi il proprio film più intimo e sentito.
Nei sogni e le tragedie che si susseguono nell’adolescenza di Fabietto (Filippo Scotti) è facile scorgere gli eventi che hanno segnato uno specifico periodo della vita del regista, il quale si trova a qui rielaborare la sua giovinezza, sublimandone gioie e dolori attraverso il potere del cinema. Non è né banale né pretenzioso riferirsi a É stata la mano di Dio come all’Amarcord di Sorrentino. Non solo per il modo in cui uno spaccato di esistenza dell’autore si fa purissima materia narrativa, ma anche per gli evidenti richiami stilistici tramite cui il cineasta premio Oscar per La grande bellezza rievoca l’immaginario grottesco del sommo regista riminese. È proprio questa la cifra preponderante della prima esilarante parte del film, in cui Sorrentino scavalca la sua consueta, sorniona e talvolta compiaciuta ironia per giungere ad uno spavaldo umorismo che fino ad oggi non gli si riconosceva. È con questo tono, il quale mostra delle forti influenze anche del cinema di Ettore Scola, che Sorrentino presenta il contesto spensierato nel quale vive Fabietto. Una famiglia allargata, caciarona e imperfetta, ma sulla quale regna un sentimento di affetto che ne consolida ruoli e legami, tanto da fare scivolare in secondo piano perfino il senso di solitudine che avvolge il protagonista, privo di amici e di piani per il futuro che non rimangano ancorati al regno del puro desiderio. Ed è da questa situazione, forse non del tutto idilliaca, ma certamente agiata, che iniziano a scaturire le dissonanze che poi arriveranno a divampare nel concerto di dolore celebrato nella seconda parte.
Non è con fare stucchevole che Sorrentino indugia sul dramma della perdita, ma con una sincera partecipazione ed uno sguardo attento a non spingersi mai oltre la soglia dell’autocompiacimento. Un equilibrio che si rispecchia anche sul piano formale, in cui gli eccessi barocchi cedono il passo ad una regia più sobria e misurata, ma non per questo priva di eleganza. Non è di certo un Sorrentino inedito, ma certamente più calibrato e maturo quello che dipinge questo affresco di devastante intensità per realizzare l’opera migliore della sua carriera.
La limpidezza narrativa incontra il rigore estetico per dare vita ad una meravigliosa apoteosi di emotività, che come un moto ondivago sale e si ritira per lasciare ogni volta dietro di sé qualcosa di diverso rispetto alla sferzata precedente. É stata la mano di Dio è quindi una fiaba autobiografica talmente sentita da trasformarsi in una parabola dal respiro universale, in cui ognuno può leggere qualcosa di sé, soffrendo ed esultando. Ciò che permette di definire, in altre parole, lo straordinario ultimo film di Paolo Sorrentino come pura emozione.
Andrea Pedrazzi