In un’opera che si presenta viva e cruda, sotto i riflettori, come fossero immersi in una scena teatrale, prendono forma e colore i corpi di Giuditta e Oloferne, sui quali lo sguardo dell’osservatore si posa attento per carpirne tutti i dettagli. Impossibile non sentire forte e chiaro il linguaggio pittorico del maestro Caravaggio: il particolare utilizzo della luce e il realismo quasi drammatico che emerge vengono impiegati, in questo dipinto, per affrontare un tema di storia religiosa. L’episodio raffigurato, appartenente all’Antico Testamento, si riferisce all’uccisione del generale assiro Oloferne da parte della vedova ebrea Giuditta, che per salvare il suo popolo decapitò l’uomo dopo averlo sedotto.


L’olio su tela, realizzato da Caravaggio nel 1597 circa e attualmente conservato a Roma, presso la Galleria Nazionale di Arte Antica, si presenta come un capolavoro di espressività: lo sguardo dell’osservatore, infatti, si soffermerà in modo particolare sui volti dei personaggi rappresentati. Si passa dal viso tinto di fermezza e determinazione di Giuditta, la cui increspatura tra le sopracciglia sembra voler rappresentare la convinzione di compiere un gesto così estremo, alla paura dipinta sul volto di Oloferne, che sembra implorare pietà, ma invano, fino ad arrivare alla sfumatura di rabbia sul viso dell’ancella, le cui labbra contratte sembrano rimarcare la necessità che venga compiuto il fatidico quanto folle gesto.


L’attenzione e la minuziosità con cui vengono dipinti tutti i dettagli che caratterizzano non solo i volti dei personaggi, ma anche le vesti e i drappeggi, contribuiscono a dare all’opera un valore e una veridicità disarmanti. In questo senso, un “ruolo” di spicco è affidato al colore, che permette di dare corposità al dipinto e di conferire anche una sorta di teatralità, soprattutto in virtù dell’utilizzo del rosso per il drappo, che risalta e che sembra avvolgere la scena, ripreso quasi con la stessa tonalità nella rappresentazione del sangue che scende dalla ferita di Oloferne. Si tratta di una tinta che, seppur scura, risalta notevolmente rispetto al resto: la scena, infatti, è interamente immersa nel buio.


Michelangelo Merisi, detto Caravaggio (Milano, 29 settembre 1571 – Porto Ercole, 18 luglio 1610), fu un pittore italiano di grande fama, non solo in vita, ma anche appena dopo la morte, tanto da generare la corrente artistica del caravaggismo e da esercitare una notevole influenza sulla pittura barocca del XVII secolo. La particolarità dei dipinti sta proprio nel soffermarsi sui particolari: dai suoi lavori emerge un’attenzione forte alla condizione umana sia dal punto di vista fisico che emotivo, oltre che una spiccata vicinanza alla raffigurazione dal vivo, e soprattutto un uso della luce particolarissimo e scenografico, in netta contrapposizione ai precetti accademici raffaelleschi. Il sapiente utilizzo del chiaroscuro, atto ad evidenziare determinati elementi in contrasto con il fondo buio, risulta uno dei suoi punti caratteristici.


L’opera fu commissionata a Caravaggio dal ricco banchiere genovese Ottavio Costa, che fu uno dei suoi primi mecenati, affascinato dal suo talento. E questo talento sembra emergere inevitabilmente anche e soprattutto dalla fedeltà ai modelli dal vivo e dalla capacità di riuscire a rappresentare e a “svecchiare” una scena del VI secolo a.C., adattandola ai giorni propri: l’abito di Giuditta, infatti, rimanda alla moda del ‘600, e con alta probabilità si rifà fedelmente al vestito indossato dalla modella di Caravaggio, la cortigiana Fillide Melandroni, al momento della rappresentazione dal vivo. Il tutto contribuisce a conferire al dipinto un realismo e una bellezza stupefacenti.


Chiara Pirani

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