Quello che si vede dalle finestre della Casa dei Migranti di Gao è un orizzonte popolato da allucinazioni e speranze, sferzato dal vento e continuamente assalito dalla sabbia. L’ultimo rifugio per migranti prima del grande deserto algerino è una scarna fortezza che in altri tempi si sarebbe detta buzzatiana e che ora chiameremmo forse un non-luogo. Tra queste quattro mura sono passate e continuano a transitare decine di etnie, culture e lingue provenienti da tutta l’Africa sub-sahariana, a pochi passi dalle camere da letto sono sepolti precariamente tutti quelli che hanno concluso lì il loro viaggio.
Come le dune del Sahel, anche le identità di chi transita per il centro vengono erose dal tempo e dall’attesa.
Il documentario The last shelter di Ousmane Zoromé Samassékou ci porta con discrezione e tatto nella vita e nei pensieri di alcuni ospiti del centro seguendo da vicino le loro giornate e ascoltando con discrezione le loro confessioni.
Il racconto si avvolge e riavvolge intorno alla routine quotidiana del centro, con i suoi gesti sempre uguali, i dialoghi a volte così concreti da chiudere la bocca dello stomaco e altre volte così confusi da risultare quasi surreali. Nell’eterno presente della Casa dei migranti, la comunicazione si disgrega in frasi abbozzate, i pensieri si sfaldano alle intemperie, l’unica luce che sembra mantenere la sua forza ammaliante è quella degli smartphone che ipnotizzano nella notte.
The last shelter accoglie uomini e donne da tutta l’Africa che confluiscono qui con le loro storie, speranze e delusioni. Ragazzine scappate dalla famiglia e dal rifiuto di un amato che vogliono rifarsi una vita, donne adulte che hanno perso il conto degli anni passati nel rifugio, uomini che sono partiti con la missione di riscattare i fratelli e i genitori con il lavoro che li attende oltre il deserto.
C’è chi cerca la strada per arrivare al Mediterraneo su mappe disegnate con il passaparola, c’è chi ha deciso di partire senza sapere quasi nulla dell’Europa, spinto solo dai video su FB e IG, c’è chi per la vergogna di non essere riuscito ad arrivare a destinazione non scrive a parenti ed amici.
Le poche persone che provano a distribuire consigli e raccomandazioni vengono ascoltate con l’indifferenza di un figlio che debba sorbirsi una ramanzina. Chi prova a fare breccia nell’inedia con il buonsenso sa che nel giro di poche ore chi annuiva e si diceva pronto a tornare a casa, cambierà ancora idea. È vero che è “meglio un lavoretto a casa che andare a rincorrere grandi delusioni all’estero”, ma chi ha il coraggio di tornare indietro e ammettere di non avercela fatta?
La Casa dei Migranti di Gao, in Mali, è un rifugio che può trasformarsi in prigione per chi si scontra con la dura realtà del viaggio e non sa come ricostruire i propri progetti. Oltre le fragili mura della casa, il deserto chiama le proprie vittime e ammalia con la promessa di un futuro migliore, anche se le probabilità di riuscita sono inferiori all’uno per certo. Ma le statistiche sono un lusso per chi non vive le situazioni in prima persona.
Nel film di Ousmane Zoromé Samassékou la violenza dell’assenza di prospettive affiora lentamente e in modo non patetico, senza giocare sulle facili accumulazioni di dettagli tragici.
The last shelter è il rifugio di un’umanità confusa e bloccata in un impasse, in attesa dell’apparizione di una speranza all’orizzonte o dell’arrivo di qualcuno che la riporti a casa dicendole che non c’è nessuna vergogna nel cambiare idea e nel voler tornare indietro.
Marco Lera