In Italia abbiamo iniziato a parlarne solo nel 2020, dopo i moti seguiti all’omicidio di George Floyd che hanno segnato il rafforzarsi del movimento Black Lives Matter: l’America ha un problema con i propri monumenti. Dalla nostra comoda postazione oltreatlantico, al riparo dalle ferite storiche che agitano quel paese immenso e complicato, l’abbattimento delle statue dei generali confederati è sembrato a tutti un gesto incomprensibile, un atto di vigliacco vandalismo che distorce le giuste ragioni dei manifestanti rivelando il volto dogmatico del progressismo contemporaneo. Del resto una statua è solo una statua, giusto? A che pro distruggere le tracce del nostro passato?
The Neutral Ground, opera del comico americano CJ Hunt, è utile anche solo per rimettere in prospettiva le vicende che hanno portato a quel gesto iconoclasta. Gli Stati Uniti, ci sentiamo di premettere, hanno per tradizione un rapporto estremamente sofferto col proprio passato coloniale, sociale, militare, che ha portato negli anni a processi revisionisti di purificazione da miti non più ritenuti adeguati ai tempi (uno per tutti, il West). Anche il dibattito sull’opportunità o meno di conservare in piedi i monumenti a uomini-simbolo del Sud schiavista è di lunga data. Gli sviluppi recenti che hanno portato agli abbattimenti iniziano nel 2015 a New Orleans, con la proposta di rimuovere le statue di personaggi come il generale Lee per ricollocarli nell’ambito di esposizioni museali, dove il loro valore storico sia riconosciuto senza sconfinare nella celebrazione.
La cinepresa di Hunt si attiva in risposta al sorprendente esito della votazione, che vede la proposta congelata per mesi a seguito dell’opposizione feroce da parte di movimenti del cosiddetto suprematismo bianco, con tanto di minacce di morte ai promotori dell’iniziativa. Come mai un gesto che appare così pacifico va incontro a simili reazioni? Partendo da questa domanda il documentario si schiera in favore della rimozione, arguendo che quei monumenti rivestano un preciso valore di attaccamento del Sud bianco a valori che discendono da quelli confederati della Guerra civile. Una guerra che il Sud combattè per tenersi l’istituzione della schiavitù, e i cui eroi rappresentano quindi paladini delle disparità storiche fra bianchi e neri.
Mentre documenta lo scontro che scuote New Orleans nel periodo 2015-2020, Hunt – con l’ausilio di vari storici – racconta come, negli anni successivi alla sconfitta, il Sud abbia rielaborato e sostanzialmente mistificato la storia della propria partecipazione alla guerra allo scopo di presentare a sé stesso un’immagine più accettabile. Fra i punti fondamentali di questo revisionismo, che va sotto l’etichetta di the lost cause, c’è la tesi che la schiavitù non abbia costituito causa primaria della Secessione e del conflitto; tesi ampiamente smentita dalla documentazione, fra cui figurano proprio i discorsi di alcuni dei personaggi immortalati dalle statue, ma che i suprematisti bianchi (anche a seguito di anni di indottrinamento nelle scuole) ripetono con instancabile fervore.
Il valore dei monumenti dovrebbe quindi essere universale, per bianchi e neri. Proprio come il suolo pubblico su cui poggiano, detto in gergo “neutral ground”. A partire dal titolo il film di Hunt ironizza su questa pretesa neutralità, dietro cui si nasconde l’autocelebrazione di un Sud bianco che non ha mai del tutto abbandonato il mito razzista e suprematista della Confederazione. Non a caso i monumenti non nascono subito dopo la guerra, ma al termine dell’euforico periodo di mobilità sociale che la successiva Ricostruzione segna per i neri. Con le truppe unioniste finalmente fuori dai piedi la popolazione bianca si riscuote, tornando ad affermare il proprio statuto egemone tramite la celebrazione di chi aveva combattuto per difendere la schiavitù.
Anche le tradizionali parate e rievocazioni della Guerra civile, ovviamente di battaglie vinte dai Confederati, fanno parte ufficiosa di questa prova di forza, di un passato che rifiuta di morire. Qui Hunt dà il meglio di sé dal punto di vista cinematografico, riprendendo una di queste mascherate per enfatizzare – lui proveniente dal teatro – il carattere performativo della perpetuazione di questi miti. La scena nell’accampamento è una pagina di satira della performance razziale degna del miglior Lee, che conferma come un certo mix di ironia e finezza intellettuale (pensiamo a Jordan Peele, anche lui un comico) rappresenti in questo momento “la” chiave del militantismo black nel cinema americano.
Non è necessario farsi conquistare appieno dalla retorica di The Neutral Ground, che del resto si chiude in modo acriticamente mitopoietico con un’altra rievocazione di segno inverso, per trovare dell’interesse nella sua proposta politica. “Mettetevi nei nostri panni”, dicono gli attivisti neri ai bianchi bendisposti all’ascolto, ma titubanti davanti a un gesto così forte. È il suggerimento di cui possiamo fare tesoro anche noi, da non-Americani, quando ci rapportiamo alle vicende storiche degli Stati Uniti. Del resto, senza negare gli aspetti fanatici di una parte di questa nuova controcultura, è anche vero che non tutte le rimozioni di monumenti sono dettate dal fanatismo. Quante statue di Mussolini vedete in giro per Roma?
Lorenzo Meloni