L’opera di oggi, dedicata al “fallimento“, è una scultura nata dall’abilità dell’artista fiammingo Jacob Cobaert, il quale, sotto commissione del cardinale Matteo Contarelli, ricco mecenate, realizzò la scultura che oggi conosciamo come “San Matteo e l’angelo“, raffigurante l’episodio biblico in cui l’angelo si avvicina all’apostolo Matteo per ispirarlo alla scrittura del Vangelo. Contarelli, nel 1578, stipulò con Cobaert un accordo secondo cui entro quattro anni la scultura dovesse essere terminata per essere inserita nella chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma. Ma l’opera non fu mai completata del tutto, e anzi richiese quasi una vita intera per essere perfezionata.
L’artista, detto Copé il fiammingo, fu notato dal mecenate Contarelli in giovane età: a colpirlo furono probabilmente le numerose commissioni che ricevette da parte di nobili e papi nel periodo durante il quale lavorava presso la bottega di Guglielmo Della Porta. Motivo per cui decise di affidargli la realizzazione della scultura, alla quale Cobaert lavorò con instancabile solerzia ogni giorno, pur non riuscendo a completare il lavoro, perennemente assalito da una sorta di senso di difetto.
Osservando la scultura, questo “senso di difetto” si può riscontrare in una serie di dettagli che saltano all’occhio: a partire dalle dimensioni del libro che l’apostolo tiene in mano, visibilmente esagerate e sproporzionate rispetto al resto dell’opera, fino ad arrivare alla staticità degli sguardi e, paradossalmente, anche dei movimenti, passando per l’assenza di grazia nelle forme, visibilmente distanti da quelle michelangiolesche. Secondo quanto riportato dal biografo Baglione, la scultura non fu completata dall’artista per via delle difficoltà che egli riscontrava nella realizzazione di opere di grandi dimensioni, e fu successivamente affidata allo scultore toscano Pompeo Ferrucci, che nel 1614 la portò a termine per far sì che venisse finalmente collocata nell’attuale cappella di San Matteo.
Jacob Cornelisz Cobaert (1530 ca. – 1615), fiammingo d’origine, si trasferì a Roma all’età di circa vent’anni per perfezionare le sue abilità di scultore, ma fu anche un sapiente orafo e incisore. Tra le sue opere più riuscite c’è sicuramente la serie delle “Metamorfosi di Ovidio“, ma la paternità dei bassorilievi in bronzo che la compongono non è ricondotta al solo Cobaert, bensì anche al maestro Guglielmo Della Porta presso la cui bottega fu realizzata. Questo aspetto accentua il fatto che l’artista fiammingo visse spesso nell’ombra di altre personalità, tanto che il biografo Baglione, tramite il quale è stata tramandata la maggior parte delle notizie relative alla vita del Cobaert, parla della sua incapacità tecnica che gli costò, nel caso di “San Matteo e l’angelo”, la sostituzione della sua opera con la tela di analogo soggetto commissionata al Caravaggio.
“San Matteo e l’angelo” è davvero da considerarsi “il più grande fallimento della storia” in ambito artistico? Nonostante le difficoltà che l’artista riscontrò nella realizzazione della scultura, probabilmente proprio per via delle considerevoli dimensioni a cui non era abituato a lavorare, l’aver dedicato una vita intera a quest’opera permette di percepire il grande impatto emotivo che vi si cela: una grande sofferenza per il non riuscire, ma, allo stesso tempo, l’incessante voglia di rivalsa.
Chiara Pirani