16 maggio 2023. Ore 21.00 di una giornata piovosa. Platea, fila R, posto 19. Firenze, il Teatro della Pergola ospita la prima nazionale de Il Misantropo di Molière per la regia di Andrée Ruth Shammah. La regista milanese, ormai qualche anno fa, nello stesso luogo ci aveva deliziato con I Promessi Sposi alla prova di Giovanni Testori, in un’edizione aggiornata e con la presenza di nuove e promettenti leve come il giovane Filippo Lai, che oggi veste i panni di uno dei marchesotti.
Per il suo Misantropo, Andrée Ruth Shammah decide di non servirsi delle traduzioni già disponibili, ma si affida alla penna di Valerio Magrelli, poeta e francesista italiano, coadiuvato nel lavoro di traduzione dall’attore protagonista Luca Micheletti (Alceste) e dalla stessa Shammah.
Il Misantropo racconta una giornata borghese nella Francia del secondo Seicento. La misantropia, che dà il titolo all’opera, è la condizione che affligge il personaggio di Alceste. Uno stato mentale che viene messo in luce già nella prima scena, in cui dialogano Alceste e l’amico Filinte, e che serve da preambolo espositivo a tutta la vicenda, «rispetto alla commedia, è come una chiave musicale che decide la lettura di una partitura», uno strumento di lettura fondamentale donato fin dal principio allo spettatore. Alceste odia tutti gli uomini e le donne della propria epoca, odia la condizione borghese, li detesta in quanto macchiati dal vizio della convenzione sociale, che non permette loro di essere pienamente sé stessi, di perseguire la verità, e li costringe invece a mentire per ottenere favori, mantenere le apparenze, dilungarsi in inutili smancerie; detto in breve, li obbliga a portare una maschera.
ALCESTE: […] Niente detesto più dello sdilinquimento di tutti questi gran maghi del complimento, squisiti prestatori di baci e di carole, dicitori finissimi d’inutili parole, che sulla smanceria a tutti tengon testa, e trattano i buffoni come la gente onesta. (trad. di V. Sermonti, Einaudi, 1969).
L’amore che Alceste prova per Celimene, giovane borghese di bella presenza e civettuola con i frequentatori della sua dimora, non basta però a salvarla dal giudizio intransigente del misantropo. Alceste è innamorato di Celimene ma non fino al punto di evitare di condannarla allo stesso modo dei borghesotti che la insidiano. Una serie di vicissitudini porta Alceste a scontrarsi dapprima con Oronte, amante anch’esso di Celimene, poi con i due marchesi e infine con la donna amata cui chiederà le ragioni del tradimento. La commedia sembra poter avere un lieto fine con la riconciliazione dei due innamorati, quando Celimene, pentita delle proprie azioni, rifiuta però di seguire Alceste in quello che lui definisce «[…] eremo, ove eleggo rifugio», unico luogo di salvezza e redenzione dall’ipocrisia dell’animo umano.
Si ride per quasi tre ore di spettacolo, ma è un riso amaro. Una risata a denti stetti, consapevole della condizione del personaggio di Alceste, una figura pienamente contemporanea, già all’avanguardia per la propria epoca e che ci parla ancora oggi e che sentiamo molto vicina alle nostre passioni.
Magrelli, bisogna riconoscerlo subito, compone un capolavoro, al pari dell’originale francese, e restituisce in settenari incrociati un testo, nato in versi, che sovente è stato ridotto a una prosa stantìa e priva di ritmo (non è il caso della traduzione per la scena, poi pubblicata da Einaudi, redatta da Vittorio Sermonti a fine anni ’60).
Andrée Ruth Shammah comprende la primigenia musicalità del testo e dirige Micheletti per primo e poi anche gli altri attori affinché quel ritmo serrato avvertito su carta venga restituito sulla scena e mantenuto rispettando prima Molière e poi Magrelli. Nel Misantropo della regista milanese anche gli oggetti acquisiscono un ruolo: persino i tendaggi e i lampadari in certi frangenti fanno da amplificatore ai moti interiori dei personaggi e in ciò si fanno narrazione; Alceste, a titolo d’esempio, più di una volta utilizza il sipario come scudo fisico contro la morale borghese.
Come in altri lavori della regista, allieva e amica di Giovanni Testori, anche nel Misantropo si avverte l’insegnamento del grande drammaturgo milanese, e anche questa volta la parola si fa carne per mezzo degli attori. La regia denuncia fin da subito, come nel lavoro tratto dal Manzoni e prima ancora nel modello dei Sei personaggi, che in teatro, qui ed ora, si sta svolgendo una prova; si sta cioè mettendo in scena il teatro stesso. Gli spettatori entrano e si accomodano, il sipario è già aperto, sono accese delle luci extradiegetiche che si spegneranno all’ingresso in scena di Alceste; un valletto, in abiti contemporanei, sta finendo di sistemare la scena (scarna come il luogo delle prove al Teatro Franco Parenti di Milano), è presente anche la ribalta con dei ceri spenti che verranno accesi durante lo svolgersi della pièce dagli stessi attori; e gli attori, in costume seicentesco, entrano e si sistemano in scena consapevoli di trovarsi in teatro, davanti a una platea di avventori (attenti e coi telefoni in modalità silenziosa, se va bene). È il teatro che riflette su sé stesso.
Lo spettacolo, coproduzione Teatro Franco Parenti e Fondazione Teatro della Toscana, è in scena al Teatro della Pergola di Firenze dal 16 al 21 maggio.
Tommaso Quilici