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Il quartetto texano torna in Italia per la seconda volta al Covo, locale underground di Bologna, presentando il nuovo album “Human Performance”, uscito lo scorso aprile, acclamatissimo dalla critica, come tutti i loro lavori, perché stilisticamente capaci di reinventarsi ogni volta.

Suonano ininterrottamente per un’ora e mezza senza fermarsi, mostrando quasi tutta la loro discografia. Si passa dalle canzoni più folk e tranquille come “Dust”, “Human Performance” e “Outside” ai veri e propri inni punk velocissimi degli esordi, con “Borrowed Time” e “Yr No Stoner”, generando un pogo che crea scompiglio tra il pubblico.

I ragazzi attaccano timidamente, per poi scaldarsi sempre di più: la sensazione che linee di basso e batterie costanti e ripetute assieme alle fender sporche e incattivite possano stufare in fretta viene spazzata via dai continui intrecci stilistici verso la storia rock del recente passato. Ogni tanto sembra di ascoltare i Ramones, ogni tanto i Velvet Underground, i Pavement e a volte addirittura i Rem. La sezione ritmica di “Bodies Made Of” fa danzare, mentre l’effetto della chitarra solista in “Berlin got Blurry” sembra una citazione a Morricone e a tutto il mondo western. C’è anche spazio per cantare la tranquilla e pacata “Keep it Even”, mentre il rap frenetico di “Captive of the Sun” si spalma perfettamente con le chitarre e l’intermezzo di tastiera in modo inaspettato.

Sono timidi, di poche parole e schietti, si vede che si divertono e non vedono l’ora di suonare più canzoni possibili, tanto che, anche quando cercano di interagire con il pubblico, vengono chieste loro meno chiacchiere e più musica. I Parquet sono esattamente la rock band moderna che vorresti sentire per ballare ogni week end nei piccoli locali: giovani con poche pretese, melodie e urla che i due chitarristi si scambiano continuamente senza far stancare mai le orecchie.

Roberto Vezzoli

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