“The Tree of Life” è il vero spartiacque della carriera di uno degli autori più intimisti che il panorama cinematografico mondiale può vantare di avere. Con quell’opera totale incredibilmente pregna di significati, il regista dell’Illinois è molto mutato sia a livello stilistico sia a livello produttivo. Prima dell’Albero, Malick, in 30 anni di attività ha girato solamente 4 pellicole, dopo l’Albero, nel giro di 6 anni, ne ha girati 3 ed un documentario (“Voyage of Time”) oltre ad avere un ulteriore film in programma tra la fine di quest’anno e l’inizio del prossimo. Ma oltre ad essere il vero spartiacque, “The Tree of Life” è anche quella pietra miliare che ha fatto diventare Malick uno dei registi più discussi e polarizzanti dell’intero globo.
Ladies and Gentlemen, per la regia di Terrence Malick, “Song to Song”.
Quest’ultima opera di Malick non fa eccezione a riguardo: c’è chi grida al miracolo e chi invece lo detesta in maniera profonda. La verità non sta nel mezzo, ma nella delusione che questa pellicola provoca una volta usciti dalla sala. Sì, esattamente delusione, e anche profonda aggiungerei. I presupposti per assistere a un’esperienza intimista ed estremamente personale c’erano tutti ma Malick decide di fare l’accidioso e di narrar tutto in maniera incredibilmente superficiale e buttato lì, senza sviluppare assolutamente nulla, rimanendo il più defilato possibile e infarcendo la pellicola con le sue meravigliose inquadrature e movimenti di macchina, celebrati dalla sublime fotografia di Lubezki, che non fanno altro che alimentar ancor di più questo senso di delusione perpetua.
Malick mette in scena quattro personaggi assolutamente piatti e non funzionali alle emozioni che questa pellicola dovrebbe far suscitare: il personaggio di Rooney Mara, incredibilmente inutile e senza alcun mero sviluppo e costruzione caratteriale, è ai limiti dell’odio viscerale; Gosling che, pur essendo stato molto bravo, non riesce ad entrare in empatia con il pubblico se non negli ultimi 15 minuti del film; il personaggio della Portman, estremamente stupido, fa delle scelte senza alcun senso logico se non il suo atto finale di farla finita; infine, il personaggio di Fassbender banalmente bidimensionale ed idealizzato all’inverosimile risulta, forse proprio questa sua esasperata idealizzazione, il personaggio meno peggio.
Ma la cosa che, più di ogni altra, fa rimaner basiti è l’incredibile sviluppo indolente e apatico che Malick usa nel raccontare tanti di quegli argomenti da creare quasi una dicotomia straniante ai limiti dell’esilarante. L’amore, il tradimento, l’odio come conseguenza di quest’ultimo, il rapporto con i propri genitori, la vuotezza interiore, i propri obiettivi personali e lavorativi sono solo alcuni degli argomenti semplicemente sfiorati e mai effettivamente sviluppati e sviscerati. La scelta di narrarli con le sue magnifiche riprese ed inquadrature ad ampissimo respiro non aiutano minimamente ad entrare nel mood proprio per la grande quantità, in contemporanea, di cose che non riescono a rendere su schermo.
Purtroppo, dopo quell’enorme vuoto cosmico dal titolo “To the Wonder”, Malick delude ancora, e per certi versi anche in maniera peggiore rispetto al film del 2012. Se “To the Wonder” è un film annacquato, in maniera esagerata, per la sua natura estremamente vacua, “Song to Song” è un’occasione mancata proprio per la grande presenza di tematiche, ma apaticamente sviluppate che vogliono dire tutto e, allo stesso tempo, niente.
Peccato Terrence, peccato.
Giovanni Berardi