Ogni film di Guillermo del Toro è un’ode al cinema; in ogni opera diretta dal regista messicano è possibile rintracciare gli elementi dei film che hanno segnato la sua infanzia, ammaliato la sua mente ed esaltato la sua sensibilità. Uno degli autori più riconoscibili, singolari ed estremi. Uno stile che gli è valso l’amore e l’ammirazione degli amanti del fantastico, ma che spesso non gli ha permesso di fare breccia nelle menti intellettuali di critici e giurie festivaliere.
Da questo punto di vista The Shape of Water segna una svolta nella filmografia di Del Toro. A seguito dell’epocale vittoria del Leone d’Oro alla settantaquattresima edizione del Festival di Venezia, da cui nessun Monster- movie era mai uscito trionfante, il film è andato incontro ad una scrosciante pioggia di consensi. Una capacità di conquistare gusti cinefili differenti e grazie alla quale l’opera si presenta con 13 nomination alla novantesima edizione degli Oscar, con la possibilità di spadroneggiare nella Notte delle Stelle, il prossimo 4 marzo.
A questo punto sorge spontaneo chiedersi quale sia il motivo di un apprezzamento così unanime. Bisogna partire innanzitutto dalla storia, quella narrata dal film che e si intreccia con la Storia vera e propria. Tematica tutt’altro che estranea al regista, già utilizzata in pellicole precedenti e che in questo caso viene riproposta per dare vita ad un racconto dai toni classici. Il motore del racconto è una storia d’amore tra due anime simili, così semplice e profonda da apparire del tutto usuale nonostante la stravaganza dei personaggi presi in considerazione.
È la vicenda di due “freaks” che si incontrano e traggono sostegno l’una dall’altro. Una donna muta che, nel contesto degli Stati Uniti dei primi anni 60, conduce una vita per lo più solitaria si trova in contatto con una creatura acquatica, estrapolata dal proprio ambiente naturale e sottoposta a vessazione da parte dei ricercatori americani. Lui viene visto come una cavia da laboratorio dalla quale trarre vantaggi per la ricerca scientifica nel contesto della Guerra Fredda, lei viene a malapena percepita; essere mansueto e silenzioso che si accontenta delle piccole gioie della routine quotidiana.
Due personalità deboli all’apparenza che nella loro unione troveranno le forze per reagire, abbandonando le loro posizioni sottomesse, avendo come unico obiettivo quello continuare a trarre piacere dalla presenza reciproca. Una storia di “freaks” che, però, non comprende solo i due protagonisti. Anche i personaggi secondari, infatti, devono fare i conti con le loro situazioni problematiche. Le uniche presenze amiche nella vita di Elisa sono la logorroica collega Zelda (Octavia Spencer) ed il mite vicino Giles (Richard Jenkins), entrambi personaggi discriminati, rispettivamente a causa del colore della propria pelle e del proprio orientamento sessuale. Nemmeno il terribile colonnello Richard Strickland(Michael Shannon) viene presentato come un uomo totalmente integrato ed infallibile.
Interessante come una menomazione fisica riportata nelle prime sequenze del film sarà il simbolo attraverso il quale Del Toro comunicherà le frustrazioni di questo personaggio per il resto dell’opera. Una storia in cui i mostri non sono solamente ricoperti di squame e muniti di branchie, ma si incarnano anche in personaggi che devono fare i conti con i propri problemi fisici, psicologici e sociali.
Contenuti sostanziosi, quindi, che avrebbero potuto appesantire una narrazione eccessivamente focalizzata sugli aspetti tragici. Ed è proprio su questo fronte che Del Toro vince la propria battaglia; nel momento in cui decide di non puntare sulla sensazionalità, ma, conscio delle incredibili capacità comunicative della narrazione cinematografica, di tessere le fila di una storia incantevole dove tutti gli aspetti sopracitati non vengono fastidiosamente sottolineati, ma inseriti armoniosamente in un mosaico fiabesco.
Già in fase di sceneggiatura , Del Toro (con la collaborazione di Vanessa Taylor) attinge elementi da una miriade di generi cinematografici diversi e li dosa con la maestria di un sapiente artigiano per plasmare la creatura perfetta. Non la più intima, forse, ma quella capace di conquistare sguardo e cuore di qualunque amante del Cinema. Ogni spettatore guardando “The Shape of Water”, potrà trovare qualcosa di appagante e coinvolgente. Con una regia pressochè perfetta, in grado di cogliere ogni sfumatura dei personaggi, Del Toro ci rende partecipi delle vicende straordinarie di persone emarginate. Immagini che rendono possibile anche ad un’afasica Sally Hawkins di emozionare ad ogni cambio di espressione, così come di esaltare ogni minuscolo movimento del fidato Doug Jones, ancora una volta perfetto nel prestare le proprie delicate movenze ad un personaggio mostruoso.
Un’opera ricca di dettagli e citazioni, un’ennesima dichiarazione d’amore all’arte cinematografica, con un’appassionata strizzata d’occhio a quel cinema Horror del passato, senza il quale oggi non potremmo assistere alle opere di Guillermo Del Toro. Un film d’autore che non si crogiola nella contemplazione di se stesso, ma che, non accontentandosi della “tematica forte”, riesce incredibilmente a fondere forma e contenuto, riflessione ed intrattenimento, descrizione ed emozione. In altre parole, il miglior cinema possibile.
Andrea Pedrazzi