32esimo lungometraggio di uno degli autori cinematografici più significativi della storia del cinema, “Ready Player One” (d’ora in avanti RPO) è l’adattamento dell’omonimo romanzo di Ernest Cline, interpretato da Tye Sheridan, Olivia Cooke, Ben Mendelsohn, Simon Pegg e Mark Rylance.
Dopo l’esperienza con i drammi politici-storici (“Lincol” nel 2012, “Il Ponte delle Spie” nel 2015 e “The Post” nel 2017), il maestro Steven Spielberg torna a maneggiare il genere che ha di fatto contribuito a plasmare, il blockbuster d’avventura-azione per ragazzi, questa volta andando ben oltre il genere per sperimentare un linguaggio cinematografico complesso racchiuso in una struttura semplice.
Il film parla di OASIS, un immenso videogioco in realtà virtuale dove la popolazione terrestre di fatto vive la propria vita non potendo sperimentarne una soddisfacente nel mondo reale, devastato da inquinamento e sovrappopolazione rendendo OASIS di fatto la più importante risorsa economica del pianeta. Il suo creatore, James Halliday, prima di morire ha lasciato all’interno del gioco un easter egg e ha promesso a chi sarebbe riuscito a trovarlo la proprietà di OASIS e l’eredità multimiliardaria del suo inventore. In questa caccia spietata alle tre chiavi che sveleranno il segreto seguiamo le avventure di Wade Watts, giovane nerd che sotto l’avatar Parzival cercherà di arrivare per primo all’ambìto premio per conquistare una vita migliore e per scongiurare il pericolo rappresentato dalla IOI, una spietata multinazionale che cerca di impossessarsi di OASIS per trasformarla in un enorme spazio pubblicitario.
Le premesse per un tipico film per ragazzi spielbergiano ci sono tutte e non manca nemmeno l’enorme apparato di scenografie ed effetti speciali che da sempre accompagnano le opere del regista, questa volta con vette finora insuperate. Quello che stupisce di RPO è il suo sguardo severo e ammonitore sulla società contemporanea, una società sempre più presente online e sempre più assente nel mondo tangibile, soprattutto se si guarda alle nuove generazioni che trovano nuova vita in rete laddove il mondo gli sbatte la porta in faccia. Il gruppo guidato da Wade è composto da ragazzini nati e cresciuti online che rivendicano il loro diritto ad avere controllo tanto della propria vita reale quanto di quella digitale, e sembra cadere giusto a proposito con il nuovo scandalo Facebook, per cui migliaia di dati personali sono stati venduti senza il consenso degli utenti e con una Net Neutrality sempre più minacciata dalla politica e da interessi privati. Spielberg, quindi, inneggia a una sorta di rivoluzione digitale per rendere la rete libera e avvisandoci dei pericoli della privatizzazione di quest’ultima, ma anche puntando a una rivoluzione interiore per svincolarci dalla dipendenza di questa realtà surrogata in cui ci stiamo buttando a capofitto (significative le inquietanti sequenze in cui si vedono persone agire per strada indossando visori VR).
Ma la grandezza del film si estende alla sua forma: Spielberg con RPO crea un colossale blockbuster sperimentale che si nutre di quell’immaginario pop che lui stesso ha contribuito a creare mettendolo in scena esplicitamente. Il film è pieno zeppo di elementi della cultura pop, dalla Delorean a King Kong fino a Minecraft e Overwatch e nasce dalla premessa di un altro grande caposaldo del cinema e dell’immaginario popolare: Matrix. Non più citazione e tributo ma vera e propria appropriazione culturale, o meglio in questo caso si potrebbe anche parlare di rivendicazione, visto l’autore. Un film pop costruito da puro e semplice immaginario pop, un cinema che vive di cinema e che lo restituisce con gli interessi al suo pubblico di riferimento.
RPO è un film divertente e leggero, ma con la grande ambizione di nascere come film intergenerazionale, il primo nel suo genere. Per raggiungere lo scopo, Spielberg ha giocato tutte le sue carte migliori: dalla classica struttura epica del racconto al tripudio di cultura pop di cui abbiamo già parlato. Spielberg ha creato il suo film più ambizioso e sperimentale, che è anche un tentativo di riassumere tutto il suo cinema. Note negative possono essere rivolte alla sceneggiatura talvolta fastidiosamente incoerente o prevedibile, nonché alla pressoché nulla caratterizzazione dei personaggi. Se RPO non può essere definito un capolavoro in senso stretto, certamente lo si può definire un punto di svolta del cinema popolare, da prendere da esempio per nuove possibilità narrative e spettacolari. Piaccia o non piaccia, Steven Spielberg si è ripreso le chiavi di casa dal nostro immaginario, diventandone ancora una volta padrone a tutti gli effetti, ma guardando anche al futuro del cinema e dell’arte nel mondo digitale sollevando questioni morali ed estetiche che non potranno lasciare indifferenti.
Marco Andreotti