Durante l’era della presidenza Obama, accolta con sommo entusiasmo in quel di Hollywood, e successivamente nell’attuale epoca del dissenso da parte dell’industria nei confronti di Donald Trump, i film sulla blackness partoriti dagli studios americani hanno conosciuto un periodo particolarmente florido. Le opere riguardanti il tema della discriminazione dell’etnia afroamericana (dallo schiavismo ottocentesco fino alle violenze odierne) sono proliferate, facendosi apprezzare per il loro valore morale, ma non sempre supportando l’argomento con una ricerca formale altrettanto incisiva.
Green Book, film del noto autore di commedie popolari Peter Farrelly, è senza dubbio uno dei prodotti che meglio ha saputo coniugare la tragicità di una rappresentazione dei soprusi inferti a questa comunità con le esigenze della narrazione cinematografica.
Ciò si palesa in maniera evidente nella presentazione dei ruoli ricoperti dai protagonisti: Don Shirley, un musicista di colore ricco ed acculturato, contrapposto a Tony Vallelonga, un rozzo italoamericano incline alla violenza assunto come suo autista.
Fin da questo spunto vediamo delinearsi una situazione in cui i rapporti di potere si invertono e secondo i quali il nero non è più lo svantaggiato vittima di un sistema opprimente, ma un uomo autonomo e rispettato. L’elemento della discriminazione diventa veramente pregnante solo nel momento in cui i due protagonisti si inseriscono in una realtà ostile ed ideologicamente arretrata come quella presente negli stati del Sud, in cui Don viene accolto calorosamente in quanto artista affermato, ma allo stesso tempo viene umiliato da leggi ed usanze di matrice segregazionista. In questo paradosso si può rinvenire il motore di questo road movie brillante e sagace, ma allo stesso tempo profondamente drammatico.
Il veicolo narrativo è invece costituito dalle differenze tra i due personaggi principali, i quali vengono presentati inizialmente come due caratteri diametralmente opposti, ma che con il susseguirsi degli eventi trovano il modo di entrare in contatto tra loro. Questo permette di innescare una serie di sequenze frutto di una scrittura sublime, la quale genera dialoghi scoppiettanti, spesso pervasi da un’amara ilarità e magnificamente enfatizzati dalle interpretazioni di Viggo Mortensen e Mehershala Ali (entrambi nominati agli Oscar per i rispettivi ruoli).
La narrazione procede spedita, accusando rari cedimenti, verso un finale forse telefonato, ma adeguatamente gestito. Peter Farrelly, dal canto suo, realizza un’opera dall’ampio respiro e riesce non solamente nell’impresa di svestire i panni del puro intrattenitore, ma anche in quella ben più ardua di realizzare un film puntuale e rispettoso riguardo al tema della discriminazione, senza però dimenticare il piacere del racconto.
Andrea Pedrazzi