“Mi aveva scambiata per mia madre e gli ho mostrato la differenza con un coltello”
In Cold War, Paweł Pawlikowski narra la tormentata storia d’amore tra Wiktor e Zula, interpretati da Tomasz Kot e Joanna Kulig, sullo sfondo della guerra fredda. Seguendo la strada già tracciata dal precedente Ida, vincitore nel 2015 del premio oscar al miglior film straniero, sceglie di farlo in bianco e nero, riportando alla mente lo splendore del cinema europeo di un tempo, quello che era, ed è ancora una volta, esaltazione del primo piano e di volti, che nonostante la loro rigidità, causata dall’eccessivo rigore generato dal contesto storico, riempiono lo schermo.
Oltre l’utilizzo del bianco e nero, Il film sembra girato nel periodo storico in cui è ambientato, grazie ad un’articolazione delle sequenze che non va alla ricerca di virtuosismi, ma si concentra sulla composizione del quadro e sulla forza che, nella loro semplicità, sprigionano gli elementi mostrati. Ciò che salta subito all’occhio è la scelta del formato 4:3. Se il precedente utilizzo in Ida poteva essere simbolo delle costrizioni che la protagonista sottoponeva a se stessa e al suo corpo, qui appare invece atto ad isolare la storia con la s minuscola dalla Storia; ed infatti il titolo del film, guerra fredda, sembra riferito all’avventura dei due amanti più che al contesto storico. Oltre all’influenza che necessariamente ha sulla vita dei protagonisti e a pochi rimandi iconografici (i volti di Lenin e Stalin) esso è principalmente contorno.
Aspettandosi un film sulla guerra fredda, sorprenderebbe l’assenza di riferimenti diretti ad eventi storici. Restano solo Wiktor, Zula e le loro differenti reazioni ai passaggi tra est e ovest. Tutto appare confuso in una successione di ellissi e luoghi; lo spettatore, come i protagonisti, viene sballottato fra Varsavia, Berlino e Parigi, subendo la stessa perdita esponenziale di punti di riferimento.
Fin dall’inizio del film egli è accompagnato dalla musica, introduzione di quasi ogni sequenza e del cambiamento di luogo e tempo avvenuto. Si comincia con le canzoni popolari, punto d’incontro fra i due amanti, lui è infatti un pianista incaricato di trovare talenti per un gruppo di danza e canti popolari e lei l’aspirante cantante; il jazz parigino è simbolo della vita nell’ovest e al contempo teatro del logoramento psicologico del pianista.
La musica leggera sembra condurci verso l’epilogo, ma il finale è saturo. Non c’è più spazio per la musica, quello che accompagna i due innamorati è il silenzio. Un distacco che appare ancora più importante quando alla fine del film sullo schermo compaiono le parole “ai miei genitori”, il regista si è infatti ispirato in parte alla loro storia; vengono così percepite ancora di più l’intimità e la passione racchiuse in quasi un’ora e mezza di luci ed ombre che caratterizzano l’intreccio di due vite.
Già premiato al Festival di Cannes 2018 per la migliore regia, Cold War ha ricevuto tre nomination ai premi Oscar.
Roberto di Matteo
Complimenti per la recensione, ne abbiamo discusso anche sul nostro blog
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