Negli anni Sessanta all’interno del western è avvenuto un cambiamento irreversibile. In Italia, con Sergio Leone, il genere americano per eccellenza è stato preso di forza e reso oggetto di una riappropriazione, che da Per un pugno di dollari (1964) in poi ha cambiato i rapporti di forza con il genere hollywoodiano. Oltreoceano invece, con Il mucchio selvaggio (1969), Sam Peckinpah ha una volta per tutte resa esplicita quella violenza che era sempre stata presente nel genere ma che non era mai stata veramente ammessa.
Esattamente a metà tra quei due anni cardine, si colloca I giorni dell’ira (1967) di Tonino Valerii, uno dei protagonisti della stagione dello spaghetti western. Assistente alla regia proprio in Per un pugno di dollari (anche se non accreditato) e in Per qualche dollaro in più (1965), Valerii, al suo secondo film da regista, riflette sul tema della violenza, da una parte percependo già quella necessità di mostrare sempre di più i meccanismi violenti, per metterli a nudo, dall’altra cercando comunque di riportare la vicenda entro confini moralmente accettabili, negando al protagonista di abbracciare quella via della violenza che tuttavia era stata mostrata.
Nella piccola cittadina di Clifton, Arizona, il giovane Sam (Giuliano Gemma) lavora come spazzino, bistrattato a gesti e a parole dai paesani per la sua condizione di “bastardo”, figlio di una prostituta. Sam sogna di fare il pistolero, e quel poco che sa lo deve al vecchio stalliere Murph, che gli ha insegnato a maneggiare una pistola. La vita di Sam viene però sconvolta dall’arrivo di Frank Talby (Lee Van Cliff), pistolero a cui il giovane guarda con ammirazione e a cui chiede di farsi insegnare i trucchi del mestiere. Da quel momento, Sam comincia ad avvicinarsi sempre di più alla persona che voleva essere e a farsi finalmente rispettare, senza però rendersi conto della manipolazione che Talby sta attuando nei confronti suoi e dei cittadini.
Talby ha un rapporto rilassato e disinteressato nei confronti della violenza: tutte le controversie le risolve attraverso un omicidio. Così il vecchio socio indebitato, un attaccabrighe al saloon e tanti altri in seguito vengono semplicemente fatti fuori, e così la storia può proseguire: in questo senso la violenza di Talby diventa necessaria all’economia della storia. Man mano che il film va avanti infatti, ci si rende conto che tutti i personaggi sono legati tra loro da un atto violento, che arrivato al primo arriverà necessariamente al secondo, creando una sorta di effetto valanga. Colpisce molto, in particolare, la crudezza di una scena in cui Talby brucia vivo un uomo all’interno del suo saloon: l’unica scena che forse si discosta un po’ dal tono generale del film. Perchè dall’altra parte la pellicola, con il suo finale moralista, porta avanti la tesi opposta: la violenza può e deve essere fermata, attraverso la presa di posizione di un singolo – ovvero il giovane Sam.
“Quando un uomo comincia a uccidere non può più smettere”, dice Sam ripetendo le parole del maestro: e questa frase, che ci è stata confermata per tutta la durata del film, viene come rinnegata all’ultimo, con il gesto del protagonista del gettare la sua pistola. Una pistola, tra l’altro, che ha la consistenza materiale della leggenda: la Colt usata da Sam nel duello finale, infatti, era appartenuta a un leggendario pistolero del West e, come era stato quasi profeticamente anticipato dal vecchio Murph, nell’usarla il protagonista arriva alla piena padronanza sia di sè che dell’arma. Gettare una pistola vuol dire allora gettare via molto altro: il valore della violenza in primis.
Valerii anticipa qui un discorso sulla leggenda e sul declino del genere che sarà poi perfettamente compiuto con Il mio nome è nessuno (1973), in un film che ha saputo comunque “farsi ricordare”, soprattutto grazie al riutilizzo della colonna sonora di Riz Ortolani da parte di Quentin Tarantino, che l’ha inserita quasi quarant’anni dopo in Kill Bill vol. I (2003) e Kill Bill vol. II (2004).
Bianca Ferrari