Figlia del pittore toscano Orazio Gentileschi, il quale seguì l’amico Caravaggio durante la sua permanenza a Roma, Artemisia fece partire la sua esperienza artistica dagli insegnamenti del padre e da quelli propri dello stile “Caravaggesco”, soprattutto per quanto riguarda lo studio e l’uso della luce e il realismo ritrattistico. Fu molto apprezzata e considerata a partire dal 1614 nell’ambiente fiorentino, ereditando dal padre il gusto per la resa delle stoffe e prediligendo il ritratto di un corpo umano reale ma dai tratti dorati, attraverso uno studio di luci e ombre, dando così vita a effetti suggestivi.
Quello che contraddistingue lo stile della pittrice è il suo background psicologico, che emerge spesso nei temi trattati nei suoi lavori. Infatti, da giovane fu stuprata da Agostino Tassi, collega del padre. Non vi fu una denuncia immediata nei confronti del Tassi, che aveva promesso ai Gentileschi un matrimonio riparatore per porre rimedio all’atto; tuttavia il matrimonio non ebbe mai luogo, in quanto Tassi era già sposato e quindi impossibilitato a mantenere la promessa. Venne denunciato da Orazio presso papa Paolo V a cui seguì il processo. Sebbene fosse nel giusto, il processo fu umiliante per Artemisia, che fu sottoposta a pubbliche visite ginecologiche per appurare la reale entità del reato oltre a una confessione sotto la tortura “dei sibilli”, per verificare che non si trattasse di calunnia, il che consisteva nel legare i pollici con delle cordicelle che, con l’azione di un randello, si stringevano sempre di più fino a stritolare le falangi. Artemisia rischiò di perdere le dita per sempre, ma a discapito della sofferenza lei volle vedere riconosciuti i propri diritti e non ritrattò la sua deposizione. Famose furono le parole che rivolse ad Agostino Tassi quando le guardie le stavano avvolgendo le dita con le cordicelle: «Questo è l’anello che mi dai, e queste sono le promesse!». Il 27 novembre 1612 Agostino Tassi venne condannato, oltre al pagamento di una multa, anche a cinque anni di reclusione o, in alternativa, all’esilio perpetuo da Roma. Com’era prevedibile, Tassi optò per l’esilio, anche se non scontò mai la pena. I suoi potenti committenti esigevano la sua presenza fisica in città. La Gentileschi vinse il processo solo de iure e, anzi, la sua onorabilità a Roma era completamente minata.
Tra i quadri più suggestivi della pittrice, che ci permette inoltre un confronto con il maestro Caravaggio, è quello che ritrae Giuditta e Oloferne, del 1620, oggi conservato presso gli Uffizi a Firenze. Da quest’opera emerge un’evidente somiglianza con il quadro del Merisi. L’episodio al quale si riferisce l’opera è narrato nel Libro di Giuditta: l’eroina biblica, assieme ad una sua ancella, si reca nel campo nemico, seducendo e poi decapitando Oloferne, il feroce generale nemico. Il gruppo è compatto e il fulcro drammatico è la testa di Oloferne, da cui sgorgano fiotti di sangue che colano sui candidi lini bianchi. Da qui emerge l’esperienza della Gentileschi dello stupro, quasi come se fosse una vendetta nei confronti del suo aguzzino.
A differenza di Caravaggio, lei gestisce la tela in modo differente: infatti notiamo che la serva non è qui solo una spettatrice, anzi, interagisce con la protagonista, aiutandola nella decapitazione. Si tratta di uno dei pochi quadri dell’epoca in cui emerge un’evidente coalizione di due donne. Giuditta è molto coinvolta nell’atto, mentre nella tela caravaggesca appariva più distaccata. Ma ovviamente vi sono anche caratteri comuni e questo lo si nota soprattutto nell’utilizzo della luce, che qui appare ancora più teatrale, come se si trattasse di una rappresentazione con attori illuminati dall’alto. La scena ci colpisce emotivamente, è viva e il suo realismo ci rende inquieti, quasi fosse un avvenimento tangibile. Il tutto non sarebbe perfetto se non ci fosse stata da parte della pittrice una cura particolarmente dettagliata per la resa delle vesti eleganti di Giuditta, che trasmettono un senso di calore con quei toni gialli e arancioni, quasi a indicarci un’accesa passione e determinazione per l’atto che sta compiendo, come se il fuoco che arde dentro di lei facesse fatica a essere contenuto.
Se Artemisia Gentileschi ha insegnato qualcosa alle donne e alla storia è che, nonostante l’oppressione, vale sempre la pena lottare per la giustizia, seppur a volte amara.
Tommaso Amato