Nella cittadina di Centerville sta accadendo qualcosa di strano e difficilmente comprensibile. Eventi che sfuggono ad una logica spiegazione, lasciando spazio a svariate supposizioni non del tutto razionali. L’unica certezza è che tutto andrà a finire molto male: questo ci viene immediatamente affermato dall’unica persona ad aver “letto interamente il copione” e che, rassegnata alla volontà autoriale, accetta ciò a cui dovrà andare incontro. Perchè I morti non muoiono è prima di tutto un feticcio in cui Jarmusch si insinua per dialogare con il testo da lui stesso elaborato, il quale da tragica commedia horror si tramuta in satirica metanarrazione, non sempre organica nella propria forma, ma comunque intrigante e spiritosa.
La sghemba apocalisse zombi che travolge il microcosmo in cui sono racchiuse le vite dei protagonisti viene presentata come una metafora della società contemporanea. Un nesso sin troppo smaccato, sventolato platealmente davanti allo sguardo stranito dello spettatore dalla voce fuori campo di un improbabile profeta interpretato da Tom Waits. La morale è talmente insistita da risultare anch’essa pervasa da una sfumatura parodica, pertanto il fine ultimo dell’autore va cercato altrove, ad un livello solo lievemente più profondo e non toccato dal sornione sarcasmo.
In un mondo che cade in rovina sotto il nefasto influsso di una luna malvagia, che porta i morti a risorgere per reclamare ciò che la società dei consumi ha imposto loro di desiderare, gli unici personaggi che provano ad opporsi alla distruzione imminente sono i protagonisti. Anch’essi figure archetipo mutuate da un immaginario di genere, ma qui condizionati da un senso di alienazione che assume una portata grottesca se rapportata al pericolo circostante. In particolare, il commissario Cliff Robertson del minimale Bill Murray e l’agente Ronald Peterson con le fattezze di un impacciato Adam Driver sono le esili figure che un disilluso Jarmusch pone come ultimo baluardo contro la forza ostile del conformismo. Ma nemmeno l’autore pare avere ormai le energie per opporsi a quella che percepisce come una marea informe e dilagante. I suoi paladini sono eroi fragili e spaesati, nei quali ritroviamo l’animo del regista e la sua remissività nel cercare una valida soluzione tramite cui contrastare il nemico.
In un contesto crepuscolare, che punta sulla sottrazione e l’essenzialità espressiva degli attori per generare la comicità, l’unico essere sopra le righe, emotivamente distaccato e superiore a qualsiasi conflitto, è Zelda Winston; ennesima trasformazione di Tilda Swinton, la quale irradia una luce propria che le permette di far risplendere ogni inquadratura in cui compare. L’unica in possesso del fervore necessario per reagire efficacemente, ma la cui presenza è superiore a qualsiasi esigenza narrativa, tanto da assistere affascinata al disastro in corso perseguendo un fine proprio e totalmente estraneo alla storia.
Un film sfuggente quindi, dove nulla pare essere certo a partire dall’idea di fondo, attraverso la quale Jarmusch prosegue nella propria malinconica celebrazione della normalità, della noia senza possibiltà di salvezza, in una condizione di accettazione di un’esistenza immutabile che qui pare averlo coinvolto in prima persona. Il malessere dell’artista si riflette nell’opera e la pervade sino a sacrificarne la solidità del racconto, in un risultato affascinante ma privo della stratificazione di lavori recenti, quando la rassegnazione all’ineluttabilità della vita non era sinonimo di superficialità.
Andrea Pedrazzi