
Estinguere o perpetuare il genere umano, mangiare o esporre una forma di parmigiano e subire dormienti lo spargimento de Il Seme dell’uomo (1969).
La notorietà di Marco Ferreri è andata svanendo nel corso degli anni; una sorte immeritata per uno degli autori più particolari che il cinema italiano ci abbia mai offerto. Regista che fa dell’ironia e del simbolismo i suoi punti cardine, a dieci anni dal suo esordio cinematografico, dopo Dillinger è morto (1969) sceglie l’immersione nella fantascienza sociologica, genere il cui proliferare in Italia è probabilmente da attribuire a Omicron (1963) di Ugo Gregoretti e a La decima vittima (1965) di Elio Petri.
È infatti un mondo vicino all’apocalisse quello in cui rischia di scomparire Il seme dell’uomo. Ne veniamo subito informati; la prima apparizione è quella di una donna che raccomanda: <<Se vedete segnali di questo colore, significa che la zona è infetta, giallo uguale peste>>. Ad ascoltarla sono Cino e Dora, rispettivamente Marzio Margine e Anne Wiazemsky, i nuovi Adamo ed Eva. I due diventano improvvisamente superstiti di un’imprecisata catastrofe, vengono così trasportati in una località ignota; il loro compito sarà procreare al fine di continuare l’esistenza della razza umana. Al loro arrivo nel Forte di Macchiatonda Ferreri impone la sua presenza; è suo il cadavere del defunto abitante dell’edificio, e nonostante la morte, mantiene vivo il suo sguardo attraverso l’autoritratto che Cino appende al muro.
È in questo microcosmo che avviene lo scontro fra due tendenze opposte: Cino è il rappresentante di un’umanità fiera e dominante, il cui perdurare, ordinato dal governo, non può essere messo in discussione. La dimostrazione del suo egocentrismo è l’archivio e l’esibizione di alcuni “cimeli” umani nella totale noncuranza della distruzione. Dora è invece nel dubbio, la resistenza che oppone al concepimento è motivata dal pensiero di immettere una nuova vita in un mondo decadente, contemporaneamente all’instaurazione di un nuovo pensiero: il seme dell’uomo è quello della distruzione.
È questa la contrapposizione di due pensieri che esprime il nichilismo di Ferreri, il cui epilogo può avere inizio dalla domanda che Dora pone a Cino: <<Perché vuoi la compagnia di un cimitero di pupazzi?>>. In effetti l’uomo, dal momento in cui mette piede nell’isola, soddisfa il suo ego attraverso molteplici oggetti icona: la forma di parmigiano, la balena spiaggiata, la coca cola fluttuante. Un mondo di finzione: è quello che resta ad un’umanità la cui stessa natura è autodistruttiva.
Roberto di Matteo