
“È già settembre” e Roy Anderson, vincitore del Leone d’oro nel 2014 con Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza, riporta a Venezia il suo personalissimo surrealismo scandinavo con About Endlessness (Om det oändliga). Sebbene non sia ufficialmente parte della trilogia della vita (The Living Trilogy), con cui ha preso forma l’incomparabile unicità della sua visione registica, About Endlessness si inserisce contenutisticamente e stilisticamente in continuità con essa.
La voce narrante di una donna dal punto di vista onnisciente ci guida attraverso il susseguirsi di tableaux che catturano momenti di vita tra la normalità del quotidiano presente e il passato storicizzato. Descrive per anafore (“Ho visto un uomo…” “Ho visto una donna…”) l’essenza di ciò che vediamo: la sua comica banalità, che sia quella del male oppure quella dell’assurdità di frammenti di vita quotidiana di cui tutti noi facciamo esperienza.
I grandi dilemmi esistenziali, come quello del prete alcolizzato che in crisi mistica si rivolge a uno psichiatra (“Come si fa quando si perde la fede?” ripete disperato), sono sempre coperti dal rumore dalle assordanti piccole incombenze quotidiane (“Mi dispiace molto, ma stiamo per chiudere.” “Mi spiace, tra poco passa l’autobus”). In questo mondo iperrealista “non si può neanche essere tristi ora”, che rischi di far imbarazzare gli altri viaggiatori, gli stessi tuoi simili che potrebbero essere al tuo posto.

In questa scansione di gag dall’umorismo deadpan, incontriamo proprio chi potremmo avere di fianco adesso in questo momento, a volte addirittura i personaggi ci interpellano direttamente per confessare la propria vulnerabilità. Chi non si è mai sentito una nullità di fronte al successo di quel vecchio compagno di classe che ora neanche più saluta quando lo si incontra per strada? Chi non si è mai distratto mentre versava il vino nel bicchiere fino a farlo traboccare? Chi non si è mai rifugiato in un Fürerbunker sotterraneo circondato dall’Armata Rossa? Non vi è mai successo? Eppure quell’ometto baffuto che ha segnato traumaticamente la Storia perché “credeva di conquistare il mondo” appare così mediocre mentre prende coscienza di quanto, ora che il suo potere è stato vanificato dalla sconfitta, sia ormai solo un puntino nell’universo.
In questo risiede il grande talento di Roy Anderson, del suo fidato direttore della fotografia Gergely Pálos e del suo reparto scenografico: arredare un mondo narrativo famigliare eppure derealizzato che ci ricorda quanto poco siamo importanti, quanto siamo minuscoli se visti dall’alto, inconsapevoli della bellezza di cui facciamo parte.
L’alto di un punto di vista distaccato, come potrebbe essere quello di un piccione su un ramo, come in un dipinto di Bruegel il Vecchio.
L’alto di una coppia innamorata che vola sopra la città di Colonia distrutta dalla guerra, in un campo lunghissimo che cita Marc Chagall ed è l’unico, quasi impercettibile, movimento di macchina di tutta la seconda parte della carriera di Andersson.
L’alto di un corpo celeste in una galassia, che va a comporre i titoli di testa nell’infinito.
“In cosa si crederà mai?”
“Ci si potrebbe accontentare di essere vivi.”
Giulia Silano