È difficile, quando si tratta di arte, non riuscire a soffermarsi su una singola opera, quanto sullo stile e il metodo in generale che l’artista mette in atto durante il processo di creazione. È questo il caso di uno dei più suggestivi artisti dell’arte post Seconda Guerra Mondiale, Jackson Pollock (1912-1956).     

Dopo un inizio di carattere accademico, Pollock iniziò a considerare i mezzi espressivi tradizionali, come colori ad olio, pennelli e cavalletto, un limite per l’espressività; iniziò così a fare ricorso a materiali differenti, come il duco (smalto opaco) e la vernice. A partire dal 1946, Pollock utilizzò la tecnica del dripping, con la quale il colore veniva fatto sgocciolare sulla tela, disposta orizzontalmente; era un modo per ottenere un risultato immediato, che consentiva l’istantanea, cioè non meditata, presa di contatto tra l’artista e la sua opera. L’artista dispone la tela a terra, le gira intorno, vi entra. Non c’è progetto, né ideazione prima dell’esecuzione. La tela viene colmata da una rete folta e aggrovigliata di linee e di macchie, da interminabili labirinti di segni (All over), metafora forse del labirintico processo mentale che porta alla produzione dell’opera d’arte.           
L’ideazione di questa tecnica ha avuto probabilmente origine negli anni dell’infanzia, trascorsi in Arizona e in California, dove Pollock venne a conoscenza dei misteriosi segni dell’arte rituale dei Navajo (simile al metodo usato da certi indiani del West che dipingono sulla sabbia). Anche l’atto di dipingere a terra fa riferimento a tradizioni antichissime e vuole indicare la necessità di eliminare il confine fisico tra l’esecutore dell’opera e l’opera stessa, concepita come diretta emanazione della propria interiorità; la grande dimensione doveva poi evocare le vaste pianure americane.

La tecnica del dripping garantisce la massima casualità; ma, come affermava lo stesso artista, nessun gesto, in realtà, è davvero casuale, ma è piuttosto uno strumento di rivelazione, che fa stabilire uno stato di pura armonia tra quadro e artista. Ad esempio, i quadri intitolati n.5 e n.31 sono gli esempi più significativi di questo processo di creazione. Il n.5 gioca sul contrasto tra i colori neutri sullo sfondo e quelli più caldi, che emergono violentemente quasi fossero spruzzi di lava fusa, il che rende il tutto particolarmente caotico e aggressivo. Al contrario, il n.31, seppur simile all’apparenza, trasmette ben altro, e in effetti a causa dei colori neutri ci sembra all’improvviso tutto più freddo, come se ci trovassimo in una foresta in pieno inverno, sotto una copiosa nevicata, che nonostante la freddezza ha una sua ineguagliabile bellezza che scalda l’animo.

Pollock con le sue opere non cerca di dirci cosa vedeva nella sua mente al momento della realizzazione, ma piuttosto cosa sentiva, cosa provava, e quella sensazione ancora oggi viene trasmessa dall’opera a noi osservatori, ci tocca dal vivo, perché noi non vediamo ciò che ci viene imposto, ma ciò che vogliamo vedere e ciò che vogliamo sentire.

Tommaso Amato

Pubblicità