Forse nasciamo di nuovo ogni volta che apriamo gli occhi, e probabilmente muore qualcosa ogni volta che li chiudiamo.

L’Islanda è quella terra meravigliosa, costellata da laghi, foreste, dirupi e scorci da mozzare il fiato, quel luogo bello e maledetto, in cui l’inverno buio sembra non lasciare scampo, finché non cede il passo ad un’estate breve come un battito di ciglia, in cui il sole non tramonta mai.

Ma l’Islanda è fatta anche dei suoi abitanti e delle loro storie nei villaggi semideserti tra le alture. È proprio questo che ci racconta Jón Kalman Stefánsson in uno dei suoi libri più celebri, Luce d’estate ed è subito notte.
L’autore si fa portavoce dell’intero villaggio (si serve non per nulla della prima persona plurale) ed è proprio al lettore che si rivolge, a te, che ascolti le mille avventure di una popolazione che diviene emblema dell’umanità intera.

Le vicende sembrano le più inverosimili: c’è chi va a sud per imparare il latino e torna un uomo nuovo, come il direttore del Maglificio, che viene ribattezzato Astronomo; c’è Ágústa che inizia a leggere la posta di tutta la cittadinanza e non riesce più a smettere, divenendo così ricettacolo dei segreti più scabrosi; c’è chi, disperato di fronte alle perdite della vita, si suicida, come Hannes, che lascia solo al mondo il figlio Jónas, che altro interesse non ha se non studiare e dipingere uccelli. Le menti più razionali subiscono il fascino del soprannaturale: così Kjartan e Davíð finiscono col credere che il Magazzino sia abitato da fantasmi, perché, come è stato raccontato loro, esso sorge su un suolo maledetto dove si compì un omicidio passionale. Anch’essi fanno la loro comparsa rivelando le più disparate storie di vita: Davíð non riesce a dimenticare Harpa, la donna sposata che per prima lo prese al termine di un concerto, e Kjartan cela, dietro al suo improvviso trasferimento in città, il tradimento con Kristín e la vendetta efferata della moglie che distrusse tutto ciò che aveva costruito. Infine c’è Matthías che, dopo sei anni consacrati all’esplorazione dell’Europa e del mondo per sfuggire alla monotonia islandese, torna al villaggio e ritrova il suo grande amore, Elísabeth. Quella stessa Elísabeth che, invidiata e desiderata da donne e uomini del paese per la sua misteriosa avvenenza, ridà vita nuova allo storico Maglificio.

Questo groviglio di storie, spesso precedute da trafiletti di riflessione quasi filosofica, dipingono con vivide pennellate quella che è la quotidianità della vita, rappresentano l’essere umano con passioni e bassezze, amore e sesso, invidia e generosità, paura e speranza. Dalla paura del sesso opposto fiorisce un senso di inadeguatezza tale che si preferisce restare soli piuttosto che ricercare un compagno o una compagna, dall’incapacità di contenere i propri istinti e di accrescere il proprio ego nasce il tradimento, seppur l’amore non cessi, magari, nei confronti del partner, dall’insoddisfazione germoglia la costante necessità di cercare nuovi stimoli negli altri piuttosto che in sé stessi.

La poesia, a cui Stefansson si dedica all’inizio della sua carriera, lascia la propria incancellabile impronta anche nella prosa. Il linguaggio si fa lirico, evocativo nel raccontare le avventure, piccole e grandi, dei personaggi del minuscolo villaggio dei Fiordi Occidentali, in cui tutti si conoscono e le esistenze s’incrociano.

Stefansson racconta la bellezza e l’amarezza della vita con una patina di malinconia nei toni, quella che d’istinto spinge a chiudere il libro per il troppo dolore che suscita, ma che invita a rimanere e a ricavarne un insegnamento. Luce d’estate ci svela che, la vita, la morte, l’amore, il dolore ci rendono tutti uguali, indistintamente fragili e inesperti.

Ci sono ferite così profonde e vicine al cuore

che fin la pioggia contro i vetri può essere fatale.

Micol Zanaga

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