L’approdo in sala (e successivamente su piattaforma streaming) del film The Irishman dovrebbe costituire di per sé un motivo di giubilo. Film agognato, inseguito, accarezzato e poi continuamente rimandato per anni da uno dei cineasti più influenti ed acclamati di sempre. L’opera con cui Martin Scorsese tenta di sintetizzare la sua intera filmografia, proponendo un racconto riguardante un gruppo di “bravi ragazzi”, i quali agendo al limite della legalità attraversano un ampio tratto di Storia americana, dialogando con essa fino a rendersi nascosti fautori di alcuni degli eventi più celebri del secolo scorso.
Un progetto monumentale fin dalla sua concezione che, dati genere e tematiche, ma soprattutto i nomi chiamati a comporre il cast, si è imposto fin da subito come la summa del cinema scorsesiano; un ritorno al passato e una rievocazione degli elementi che hanno reso immortale la sua produzione. E The Irishman è certamente anche questo. E’ il terreno su cui un ritrovato Robert De Niro torna ad essere il veicolo dello sguardo registico di Scorsese, il quale però non indugia su di lui ma lo utilizza come viatico tramite il quale spaziare tra i decenni, introducendo lo spettatore alla moltitudine di personaggi che affollano questo affresco vastissimo. Tra questi emergono per minutaggio ma specialmente per carisma e levatura artistica gli abbietti consiglieri di Joe Pesci ed Al Pacino, chiamati a rispolverare gli antichi fasti, portando su schermo due caratteri tra i più viscidi e repellenti delle rispettive carriere.

Queste sono le figure che affollano i densissimi duecentonove minuti che compongono quest’ultimo immane mosaico del regista italiamericano, il quale ritrova certamente il fascino criminale e la fredda brutalità che compongono classici come Quei bravi ragazzi (1990) e Casinò (1995), ma si rivela al contempo in grado di compiere un inatteso passo successivo. Scorsese pare volerci raccontare di come sia giunto al momento della sua carriera (e della sua vita) in cui non può esserci possibilità per un consolatorio colpo di coda finale. Sembra ormai superato il tempo in cui l’eroe fallito, dopo aver toccato l’apice del successo ed esserne stato travolto, riusciva vedere compiuta la propria (parziale) restaurazione trovando un posto dignitoso nel modo. Ora è il momento di confrontarsi, come già avvenuto sotto vesti differenti nel precedente Silence (2017), con l’amico più caro e temuto dell’essere umano: la fine.
Nel malinconico atto conclusivo di The Irishman non c’è spazio per alcuna redenzione. Il ritmo delle mirabolanti gesta dei protagonisti si interrompe per lasciare campo libero unicamente alla consapevolezza di quanto sia andato perduto senza possibilità di rimedio. E qui il regista, quasi prostrandosi di fronte alla tragica ineluttabilità della natura umana, si adagia su un registro che raramente aveva toccato nella sua carriera volta al dinamismo. Ecco allora che al termine di un arco apparentemente interminabile resta solo il tempo per chiedersi che cosa ne sia stato di tutto quello che abbiamo vissuto, dei volti familiari che conoscevamo, ora divorati dall’azione indomabile del tempo. E mentre ci si aggrappa ad ogni flebile speranza di contatto col passato, si fa largo la terrificante consapevolezza che l’ultimo compagno disposto a concedere la propria presenza sia la triste solitudine.
Andrea Pedrazzi