È tutto stridente, ma armonizzato alla perfezione: nelle opere di Giorgio de Chirico è sempre così, e nel “Canto d’amore”, considerata una delle più significative e riuscite dell’autore, il contrasto la fa da padrone, volto a recuperare l’immobilità e la tradizione, elementi molto cari al pittore, e a rilanciarne, in un certo senso, l’efficacia espressiva, instillando nell’osservatore quel senso del dubbio, quella perplessità che deriva inevitabilmente dalla visione dei suoi dipinti.

L’opera, un gioco di luci e ombre olio su tela tipico della pittura metafisica, è stata composta nel 1914 ed è attualmente conservata nel Museum of Modern Art di New York. Già al primo sguardo, sarebbe impossibile non associarla all’estro del maestro de Chirico: i colori, le geometrie, l’armonia stridente che caratterizza tutti i suoi lavori campeggiano anche in questo dipinto, che si presenta come un misto di elementi eterogenei, ma privati della dimensione temporale a tal punto da sembrare in equilibrio tra loro.

Significativo è l’accostamento dei tre protagonisti dell’opera, che stanno probabilmente a simboleggiare un’idea più ampia: a sinistra, spicca il calco classico dell’Apollo del Belvedere, figura che richiama un’espressione più ampia dell’antichità, elemento ricorrente nelle opere metafisiche, accostata a un guanto di plastica dal colore intenso, appeso alla muratura retrostante da un chiodo, probabilmente ad indicare la vicinanza alla modernità. Infine, a terra c’è una palla verde, piuttosto grande, ferma, mentre a destra, distogliendo leggermente lo sguardo dai tre elementi protagonisti, campeggia un colonnato sviluppato in altezza con murature vuote.

Un ruolo fondamentale è giocato sicuramente dalla luce e dal colore: salta subito all’occhio il contrasto tra il bianco del calco di Apollo, simbolo dell’antichità e della sua “purezza” estetica, e l’arancione del guanto in plastica, modellato dal chiaroscuro sapientemente utilizzato dal pittore e immediatamente visibile grazie alla saturazione del colore. Viceversa, la palla verde ferma a terra sembra ingoiata dall’oscurità, come il resto del suolo stradale, ma contribuisce a costruire una sorta di triangolo con gli altri due elementi e a ricordare, come sostengono anche alcuni critici, i colori della bandiera italiana.

Giorgio de Chirico (Volo, 10 luglio 1888 – Roma, 20 novembre 1978), noto pittore e scrittore italiano, fu tra i massimi esponenti della pittura metafisica. A colpirne significativamente la sensibilità artistica fu in primis la città di Ferrara, in cui l’artista rimase per circa tre anni e mezzo, dopo che vi fu mandato con il fratello. Partecipò, poi, alla Biennale di Venezia (1924 e 1932) e nel 1935 alla Quadriennale di Roma, città in cui trascorse gran parte della sua vita.

Seppe raffigurare in modo sapiente scene così particolari da avviluppare l’osservatore in un mistero senza fine.

Osservando attentamente l’opera in questione, ci si accorge che ogni dettaglio risulta studiato per contribuire a bilanciare geometricamente il quadro, seppur con oggetti in apparente contrasto tra loro. L’abilità del maestro de Chirico sta proprio in questo: rendere ogni opera un enigma, suscitare la curiosità dell’osservatore, far affiorare una gran quantità di domande, non risolvere i dubbi, ma alimentarli, coinvolgendo chi guarda in un viluppo di arcani da risolvere, quasi a voler assimilare l’opera a un mistero da decriptare.

Chiara Pirani

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