Il colossal sulla prima guerra mondiale 1917 di Sam Mendes si sta facendo notare per essere uno dei quattro film ubiqui – insieme a Joker, The Irishman e C’era una volta a… Hollywood – che hanno colonizzato, con 10 candidature, metà delle categorie dedicate ai lungometraggi agli Oscar 2020.

Ma soprattutto se ne sente parlare per i meriti tecnici e la trovata, più volte sperimentata nel corso della storia del cinema, di simulare un’unica ripresa di due ore apparentemente priva di stacchi. Si tratta invece di vari piani sequenza che, attraverso effetti speciali, tagli di montaggio impercettibili ed espedienti visivi, dissimula l’azione in tempo reale seguendo ininterrottamente i soldati Tom Blake and Will Schofield attraverso il Fronte Occidentale.

Ne risulta un’operazione ludica e spettacolare che riprende in un certo qual modo la modalità estetica del videogioco tramite la preponderanza di semisoggettive con carrellate a seguire, volte ad esplorare lo spazio circostante. Già nei primissimi minuti del film i protagonisti vengono identificati con una missione da compiere. Tom e Will vengono incaricati di raggiungere il secondo battaglione del reggimento Devonshire per portare un messaggio che permetterà di salvare le vite dei 1600 commilitoni mandati all’attacco dell’esercito nemico. L’ordine è far annullare l’offensiva nei confronti dei tedeschi che nel frattempo si sono ritirati oltre la Linea Hindenburg per tentare a loro volta un attacco d’artiglieria a sorpresa. Alla missione principale si affianca inoltre una side quest: trovare il fratello di Tom, anch’egli parte del reggimento Devonshire.

Questo percorso lineare prevede momenti d’azione con alcune inquadrature che ricordano gli sparatutto in prima persona, fugaci interazioni con i civili della zona e imprevisti che si presentano a intervalli regolari per decretare il game over o il passaggio al livello successivo. La regolarità degli ostacoli finisce tuttavia per cadere nella prevedibilità fino a smorzare la tensione.

I personaggi scompaiono nello scenario immersivo, un’illusione di un gioco open world esplorabile solo nei limiti del campo che inquadra un ambiente sudicio e malsano tra macerie deflagrate, carcasse in decomposizione, pantegane pestilenti, uniformi impolverate e fucili incrostati di fango.

La limpida fotografia di Roger Deakins, volta a catturare il maggior numero di dettagli, pone l’attenzione sul realismo dei costumi e della scenografia di Dennis Gassner (production design) e Lee Sandales (set decoration), che si contendono l’Oscar con Lee Ha Jun e Cho Won Woo del sudcoreano Parasite.

L’estetica in stile videoludico non è affatto una nota di demerito, se non fosse per la mancanza di profondità dei personaggi di cui seguiamo l’avventura nel binario prestabilito tracciato da Mendes. Lo spettatore è partecipe delle loro azioni, ma a causa della mancata costruzione di un’indagine introspettiva, se non con gli occasionali, insufficienti e poco particolareggiati indizi sulla vita oltre la trincea, risulta difficile stabilire un patto empatico. Di questi giovani soldati sappiamo solo che hanno dei cari a casa ad aspettarli. E che hanno una missione. Quindi non possono morire.

Eppure la monodimensionalità di questi militi ignoti li rende intercambiabili anche di fronte alla morte, proprio perché si limitano a incarnare una funzione all’interno di un simulatore di vita in trincea in cui scompare sia il racconto di una storia, sia la visione d’insieme della grande Storia.

Giulia Silano

Pubblicità