Quarantaduesimo lungometraggio diretto da Clint Eastwood. Ennesima prodezza in cui il leggendario cineasta “dagli occhi di ghiaccio” maneggia la materia cinematografica facendola aderire alla propria consolidata linea morale. Intercettando i temi già toccati dal suo cinema più recente, Eastwood attinge da un’altra storia americana contemporanea e agisce su di essa applicando la carica enfatizzante del racconto fino a renderla un apologo sulla dignità umana.
Richard Jewell (Paul Wlter Hauser) è un cittadino comune, ma pervaso da un raro fervore nei confronti delle istituzioni e verso gli ideali più nobili della società in cui vive. La sua ossessiva devozione alla tutela dell’ordine e l’estremo rispetto nei confronti del sistema che regola l’assetto della nazione lo portano a nutrire una totale e malriposta fiducia nell’autorità del suo Paese. Per questa ragione anche quando viene indicato come possibile artefice dell’attentato all’Olympic Park di Atlanta che lui stesso ha sventato – siamo nell’estate del 1996, poco prima dei Giochi – la sua prima reazione è quella di un’ingenua, seppur guardinga, collaborazione con le forze che cercano di incastrarlo.
Richard è certo della propria innocenza e persuaso che la macchina integra su cui poggia la giustizia degli Stati Uniti sia in grado di provarlo. Lo scetticismo che regna intorno a lui viene personificato in maniera esplicita dai media di massa e dagli agenti dell’FBI, ma emerge anche dalla ricerca di prove attraverso cui l’avvocato Watson Bryant di Sam Rockwell cerca di fugare ogni personale dubbio circa l’innocenza del suo assistito, oltre che dal senso di spaesamento della madre (interpretata dalla nominata all’Oscar Kathy Bates) che stenta a riconoscere il figlio nel caos che ha travolto la loro quieta esistenza. Richard reagisce agli assalti di chi vede nella sua atipica figura il profilo ideale dell’attentatore solitario intraprendendo una stoica e silente resistenza alle accuse. Il suo temperamento fanciullesco viene lentamente deposto e la sua risolutezza matura proporzionalmente al dissolversi della fede nutrita nei confronti dell’ordine pubblico. Le vesti infantili dell’illusione vengono spogliate per lasciare che la sua figura si ammanti di una disarmante dignità, unica arma che possa piegare le subdole strategie degli accusatori.

Esatwood si mostra ancora una volta implacabile nell’incidere la storia di un eroe ripudiato dal mondo che ama e rimarca la sua convinzione secondo cui il potere più indomito risieda nell’essere umano in quanto singolo, più che in una collettività le cui alte aspirazioni vengono corrotte da individui meschini. E di tale ideale investe il proprio eroe, delineando un racconto che schiva ogni possibile ambiguità circa la posizione del protagonista ed inscenando la sua sfiancante lotta per l’affermazione di un’innocenza palese all’occhio dello spettatore, ma continuamente messa in discussione dall’incedere degli eventi. L’autore persiste nel problematizzare quanto mostrato in partenza, accostando la mansueta battaglia di Richard ai sordidi tentativi di compromissione da parte dell’FBI, col risultato di affermare con maggior vigore l’autenticità delle sue ragioni.
Il crollo emotivo della cinica ed arrivista Kathy Scruggs di Olivia Wilde, prima giornalista a riportare le accuse mosse contro Jewell, e lo straziante appello della madre che davanti allo sguardo di una nazione inferocita rivendica l’onestà del figlio, sono i primi forti segnali di rivalsa. Gli episodi che fanno d’apertura all’approdo finale, il momento in cui Richard scopre di possedere il coraggio di guardare il volto fedifrago del Paese che lo ha tradito, per poi annichilire le sue ripugnanti mistificazioni con null’altro che la forza inscalfibile della verità.
Andrea Pedrazzi