Cosa succederebbe se un virus letale, con un’infettività del 99.4%, decimasse la popolazione mondiale fino a ridurla all’ordine di qualche migliaia di unità? Cosa succederebbe se il gruppo sparuto dei superstiti fosse costretto a riorganizzare la società umana sui resti di quella distrutta? Questo è lo spunto sul quale Stephen King getta le basi di una delle sue opere più corpose ed imponenti, delineando un contesto di estrema devastazione in cui la sopravvivenza della razza umana deve passare giocoforza attraverso una manicheistica contrapposizione tra il candore del Bene Supremo ed il marasma caotico del Male. L’ombra dello scorpione (The Stand) viene pubblicato nel 1978 e successivamente in una versione estesa ultimata e distribuita nel 1990. Nonostante l’estremo fascino e la notevole popolarità, quest’opera rimane nella bibliografia del romanziere di Bangor una tra quelle suscettibili del minor numero di adattamenti. Naufragato il progetto di una versione cinematografica curata da George Romero ed in attesa della produzione seriale attualmente in lavorazione per la rete on demand CBS All Access, la miniserie ABC del 1994 resta ad oggi l’unica rappresentazione audiovisiva di questo caposaldo della produzione kinghiana.

Affidata alla regia di Mick Garris, la versione televisiva de L’ombra dello scorpione aspira a ricalcare i principali snodi dell’opera letteraria, con un linguaggio ellittico che fin dalle prime battute lascia trasparire come nemmeno i 366 minuti a disposizione siano sufficienti a condensare in maniera esaustiva l’intricata vegetazione di trame e riflessioni elaborate dall’autore. Un approccio che inevitabilmente influenza questa trasposizione fin dall’inizio, attribuendole un sentore di superficialità agli occhi dei “fedeli lettori”, ma a cui se non altro va riconosciuto il merito di aver saputo partire da un testo estremamente complesso traendone una versione che, per quanto scarna, si presenta come una sintesi esaustiva e facilmente fruibile per i profani, non mancando di regalare qualche sprazzo di godimento anche ai cultori dell’opera originale.

Linguaggio ellittico, dicevamo, indicandolo con un’accezione negativa. Ma è anche giusto sottolineare che proprio lo snellimento narrativo e le rapide contrapposizioni tra ambienti distanti generano il ritmo adeguato alla descrizione della fase iniziale di questa imponente storia. Quella che riguarda la fuga di un guardiano operante nella base statunitense in cui sta venendo coltivata l’arma batteriologica indicata dal governo come “Progetto Azzurro”, una super influenza con un tasso di letalità del 100% su chiunque la contragga. La dispersione del virus e la sua rapida diffusione sull’intero territorio americano porta il racconto ad incentrarsi sulla cerchia di quelli che diventeranno poi i protagonisti di questa epopea corale, un gruppo di personaggi risultati immuni egli effetti del virus e che, ritrovandosi soli dopo il crollo del mondo circostante, si troveranno costretti ad aggregarsi per sopravvivere.
Ma è proprio qui che il tono del dramma post apocalittico intercetta l’onirismo e la trascendenza di stampo kinghiano, ed è in questa fase, dove la successione degli eventi si fa meno incalzante e gli ostacoli dei personaggi assumono una sfumatura più intima e introspettiva, che la forza di questo umile ma onesto adattamento viene meno. Le città sono deserte e gli spaesati superstiti si trovano a vagare senza più volontà tra le macerie della loro esistenza. In questo scenario iniziano a subire l’influsso dei due poli attrattivi che li richiamano a sé. Da un lato il caos ruggente, impersonato dall’uomo in nero Randall Flagg (Jamey Sheridan), uno dei principali antagonisti del multiverso forgiato da King e qui presentato come fonte di attrazione per animi perversi, malvagi o anche solo tormentati. Dall’altro la luce divina incarnata da Abigail Freemantle (Ruby Dee), un’afroamericana ultracentenaria che su di sé porta i segni delle vessazioni riservate in passato al suo popolo e la purezza di chi osa contrapporsi alla macchina bellica dell’oscurità con nient’altro che il candore del proprio animo.

A Ovest, nell’assordante frastuono di Las Vegas, gli accolti di Flagg si adoperano avendo come obiettivo la sopraffazione della pacifica comunità che sul culto di “Mamma Abigail” sta sorgendo e Est, nella cittadina di Boulder, dove i protagonisti sperimentano la convivenza nel nuovo mondo, tra il consolidamento di rapporti e delusioni che sfociano in terribili tradimenti. Per quanto l’aspirazione pacifica e pacifista domini il proprio operato, il sogno della nuova civiltà deve passare attraverso la resistenza nei confronti dell’aggressione che si prepara a Occidente. Questa fase, estremamente delicata per la definizione dei rapporti tra i personaggi e l’emersione delle rispettive dicotomie interiori è anche, purtroppo, quella che in maggior misura risente della semplificazione del racconto.

Una scelta imposta anche dalla limitatezza delle risorse a disposizione di una serie nata come prodotto per una rete generalista con lo scopo di fuggire qualsivoglia eccesso di complessità. Ne consegue una caratterizzazione dei protagonisti che, oltre a non rendere onore ai rispettivi predecessori di carta ed inchiostro, non possiedono nemmeno una forza espressiva tale da poter reggere il paragone con le figure carismatiche che popolano la serialità dell’ultimo decennio. Vizi di forma di un prodotto a cui, a distanza di oltre vent’anni, va comunque riconosciuto il coraggio di aver cercato il confronto con un’opera letteraria oltremodo ambiziosa e di aver centrato (per quanto parzialmente) un obiettivo mancato da chiunque altro, giungendo a noi come unica testimonianza audiovisiva di quel concentrato di pulsioni istintive e divagazioni filosofiche che costituisce uno dei più grandi capolavori di Stephen King.

Andrea Pedrazzi

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