Se il candore avesse una forma, questa coinciderebbe probabilmente con il cinema di Ermanno Olmi. Regista dallo sguardo limpido e sempre garbato, personalità umile plasmata su antichi valori ed arricchita da una vena deliziosamente nostalgica. Quella che Olmi riversa nelle proprie opere è una poetica segnata da un tocco apparentemente leggero, ma in grado di racchiudere sensazioni ed emotività complesse quanto solamente l’animo umano può esserlo. Che questa stratificazione di sentimenti venga espressa in un linguaggio dalla disarmante semplicità è un ulteriore aspetto lodevole che ammanta la filmografia di questo autore. E se esiste un film che, nella moltitudine di docili racconti seguiti a Il tempo si è fermato (1959) e culminati con il quasi testamentario Torneranno i prati (2014), possiede un equilibrio di temi, ambienti e rapporti umani tale da poter sintetizzare l’intera produzione di Olmi, esso è proprio L’albero degli zoccoli (1978).
Suo lungometraggio più celebre fin dall’esordio al Festival di Cannes, presso il quale venne premiato con la Palma d’oro, succedendo al Padre padrone (1977) dei fratelli Taviani. Un binomio italiano riguardante i drammi della classe proletaria, umile dittico trionfante nella rassegna francese e racchiuso tra le vittorie dei colossi Hollywoodiani Taxi Driver ed Apocalypse Now, insigniti del massimo riconoscimento rispettivamente nel 1976 e nel 1979. Opere che in quanto a sforzo produttivo orbitano in una galassia differente rispetto al cinema di Olmi, ed al cospetto delle quali la sua modesta parabola sulla società contadina di fine Ottocento pare un oggetto fin troppo fragile, ma proprio in virtù di questo ancora più prezioso. Quella di Olmi è una ricostruzione storica che non passa attraverso il marcato impiego degli apparati tecnici, ma che parte dai luoghi preesistenti e dalle persone ad essi vincolate. L’immersione in un mondo circoscritto ma talmente vivido e reale da farsi efficace riproduzione di un frammento di mondo ormai estinto.
Così il regista pare richiamare noi spettatori al caldo di una stalla e, proprio come il “Batistì” protagonista del film, farci sedere attorno a sé per ripararci dal gelo invernale raccontandoci una storia lontana nel tempo e nello spazio, ma tremendamente vicina per l’universalità dei conflitti illustrati. In questo modo, sì è ben presto assorbiti da una realtà arcaica, in cui la società è ridotta ai minimi termini e dove la lotta quotidiana riguarda la propria stessa sopravvivenza. Un microcosmo racchiuso tra le mura di una cascina nella bassa bergamasca, animata dalle essenziali attività dei contadini che si adoperano tanto per sé stessi quanto per il sostentamento di un padrone senza nome. Olmi delinea un contesto in cui ogni gesto assume un valore vitale, la minima azione viene investita di significati ulteriori, facendosi veicolo degli affetti che regolano i rapporti tra i personaggi. Un mondo scandito dalla successione di atti consueti, ma in cui anche il timido augurio di una “buona sera” può riecheggiare con la forza straripante di una dichiarazione d’amore.

Olmi tende la mano oltre lo schermo per guidare lo spettatore nel rutinario svolgimento delle vite dei personaggi; esistenze che si dipanano nella dialettica tra religione e lavoro, intimità famigliare e condivisione comunitaria. Senza cercare un arco narrativo netto e saldamente compiuto dal punto di vista drammaturgico, Olmi si accontenta di assecondare il blando incedere di queste vite distinte ma intrecciate, concentrandosi sulle sensazioni trasudanti dall’accumulo di volti segnati dalla fatica, abiti insudiciati dal lavoro o pasti essenziali consumati nella fretta. Il suo occhio contemplativo si adagia su corpi ed oggetti, portando alla luce le infinite sfumature che intercorrono tra la rudezza dei mestieri manuali e la placidità degli animi. Una contrapposizione che viene puntualmente esemplificata nella musicalità del dialetto bergamasco, tanto brusco nei toni quanto ingenuo e quasi infantile nella sua cadenza. Il cinema di Olmi gioca sulla vicinanza di questi estremi apparentemente distanti ed inconciliabili, i quali vengono presentati non tanto come due facce distinte di una medesima medaglia, ma come aspetti complementari ed indissolubili che, secondo l’autore, trovano il luogo di massima stabilità e realizzazione nella società contadina. Quest’ultima è una componente fondamentale della poetica di un cineasta le cui radici affondano nel duro terreno della pianura lombarda. Landa bucolica ed operaia in grado di segnare profondamente la sua persona ed al contempo nutrire la sua sensibilità artistica.
L’inusuale incontro con la macchina da presa, avvenuto nella realizzazione di documentari per le industrie Edison di cui era dipendente, costituisce le fondamenta su cui poggia la vocazione umanista di Olmi. La sorgente della tensione verso le forze primordiali che animano l’opera dei singoli individui, portati ad unirsi al fine di dare origine ad una collettività di intenti ed aspirazioni. E così il dramma del singolo colpisce anche i vicini quasi in egual misura, le famiglie riunite al riparo delle mura domestiche si affacciano sul cortile per lenire le tragedie e condividere le gioie altrui. Un senso di aggregazione sostenuto dalla forza inscalfibile della bontà, immacolato carattere che più di ogni altro è stato denudato e portato alla luce da ogni inquadratura che compone la filmografia del regista. Un intento che oggi risuona ancora come terribilmente giusto, nell’epoca in cui questo concetto viene sbeffeggiato con eccessiva frequenza e assunto troppo spesso quale sinonimo di debolezza e codardia.

Forse mai come ora il cinema di Ermanno Olmi si staglia come un’irrinunciabile ode ai buoni sentimenti ed in quanto tale merita di essere difeso ed onorato. L’albero degli zoccoli diventa allora un denso compendio dal valore inestimabile, il quale poteva essere generato solo da chi in precedenza aveva tessuto storie come quella dell’amore umile e potente di due “fidanzati” allontanati dalla vita, o dell’onestà di un uomo che “un certo giorno” vide la propria esistenza macchiarsi di un’azione atroce. Solo chi poi ci avrebbe raccontato le aspre passioni che accompagnano “il mestiere delle armi” con la tenerezza solenne della voce di “Bosco Vecchio” poteva realizzare un’opera così densa di impulsi contrastanti; glaciale come un inverno nordico, ma anche mite e confortevole come un salotto riscaldato dal fuoco di un caminetto. Un apologo universale, potente ma anche moderato e mansueto, indifferente al facile sensazionalismo ma gravido di disarmante autenticità. Come può esserlo la vita in una cascina all’epoca della mezzadria, o una storia raccontata di notte alla penombra di una stalla riscaldata da nient’altro che il calore umano.
Andrea Pedrazzi