Riguardare oggi la prima trilogia dei Pirati dei Caraibi genera sensazioni contrastanti, di familiarità mista a stupore. La riconosciamo, un po’ perché come si dice “ci siamo cresciuti”, un po’ perche internet conserva e mantiene tutto in circolazione, un po’ perché l’eco di quella stagione – che un amico in un momento di puro genio ha battezzato “epica anni 2000” – si sente ancora fortissima, avendo settato nuovi standard di spettacolo audiovisivo: il raggiunto stato dell’arte degli effetti digitali permise di sfogare la nostra voglia di avventura come forse era successo solo nell’era Spielberg-Lucas, e nel giro di dieci anni avevamo Matrix, Il Gladiatore, Il Signore degli Anelli, Harry Potter e Le Cronache di Narnia, mentre gli Spider-Man di Sam Raimi e gli X-Men di Bryan Singer gettavano le basi per il dominio supereroistico del decennio successivo. Eppure, per quanto molti frutti di quell’esplosione (creativa e commerciale insieme) siano ancora con noi, il fascino di guardare indietro sta anche nel prendere atto dei cambiamenti, di ciò che ieri era e oggi non potrebbe più essere, specie per quanto riguarda le ambizioni smisurate di questi film, la cui collocazione in interminabili saghe-franchise poteva certamente lasciar presagire l’odierna inversione di rotta di un sistema hollywoodiano sempre più “chiuso in difesa” e bisognoso di giocare sul sicuro, ma che all’epoca suggeriva al contrario irrequietezza, voglia di fare, supremo piacere del racconto, e rivisitata oggi – neanche vent’anni dopo – ha l’aspetto di un “fuoco alle polveri” da far cascare la mascella. Qui a Cabiriams abbiamo seguito a distanza la trilogia dei Pirati, finendo ogni volta sfatti, allegri e ubriachi (the rhum’s gone..) e riuscendo perfino a inframezzare le minchiate e il bias con qualche osservazione interessante. Siccome il bias medesimo rende impossibile articolare un discorso compiuto e imparziale su Pirati dei Caraibi – ai confini del Mondo (2007), abbiamo deciso di spulciare la chat in cerca dei commenti più interessanti e svilupparli in forma di piccola lista. Come in un breviario. Un codice. Una specie di traccia…

Spunto #1 – Operatic Cinema.

Dovendo restare imparziali, iniziamo col constatare che l’incipit di At World’s End (“hanno iniziato a cantare..”) è la miglior scena musical degli anni ‘00. Ok? Ok. Perchè poi i produttori di Les Miserables (2012) si siano rivolti a Tom Hooper (Il discorso del Re) anziché a Gore Verbinski, è uno di quei misteri irrisolti alla JFK: il film di Hooper non sembra altro che la versione extended di questi cinque minuti sublimi, girata da uno che – pur bravo quanto Verbinski con gli attori e il period drama – non ha però un briciolo del suo dinamismo visivo, quel dinamismo che poteva risultare utile fra scene di guerra e insurrezioni popolari nella Francia ottocentesca. Proprio questo inizio al cardiopalma che culmina nell’impiccagione di un bambino (ennesimo shock riservato dalla saga agli spettatori della stessa età) resta uno dei migliori biglietti da visita del suo peculiare stile visivo, magniloquente e intricatissimo, basato su una concatenazione di dettagli microscopici che costringono i bravissimi montatori a continui tour de force.La citazione diretta, a tre quarti di film, di C’era una volta il West (1968) convalida l’impressione che nelle sequenze migliori riviva la lezione “operatica” di certo cinema italiano – Leone e Argento in testa – capace di orchestrare autentiche sinfonie audiovisive, dove il sistema delle inquadrature si fonde alla colonna sonora in modo quasi magico. Proprio quel che succede quando al rumore ritmico delle catene si sommano i primi piani dei prigionieri, la melodia di Hans Zimmer e l’ingresso prepotente dei bassi..

Spunto #2 – Gli anni delle Imprese

Tutti ricordano il divertentissimo (quando lo racconti) aneddoto su Peter Jackson che arriva dimagrito alle première dei suoi Signori degli Anelli perché aveva perso peso correndo in bicicletta fra i molti set dove li stava girando in simultanea. Impresa straordinaria che fece parlare di rinascita del ruolo eroico del regista/produttore, capace da vero Titano visionario di misurarsi alla pari coi Griffith, Selznick e De Mille del passato. Se Jackson è giustamente rimasto l’emblema di questo ritorno al gigantismo della vecchia Hollywood, Disney non fu da meno, mettendo in produzione allo stesso tempo due dei film più costosi e tecnicamente difficili di tutti i tempi, La maledizione del forziere fantasma (2005) e Ai confini del Mondo (che ha tenuto per anni il record assoluto di budget ed è tuttora quinto in classifica). E se il comparto tecnico della trilogia di Jackson continua  a sbugiardare anche i tentativi più ambiziosi di fantasy (con scene come quella del Fosso di Helm che stanno al genere più o meno come gli elicotteri di Apocalypse Now al war movie) lo stesso si può dire per tanti momenti della saga dei Pirati, specialmente il terzo capitolo, quello che vira più nettamente verso l’epica dei campi di battaglia: su tutti spicca il mostruoso set costruito per le sequenze ambientate a Singapore alla corte del pirata nobile Sao Feng (Chow-Yun Fat); ma altrettanto stupefacente è il livello degli effetti digitali, in ulteriore miglioramento rispetto al secondo capitolo e soprattutto armonizzati al “mondo reale” con un’attenzione certosina (la pelle di Davy Jones continuamente ombreggiata e bagnata dalla pioggia) che li sta portando, come già era successo a quelli di Jurassic Park, a un invecchiamento invidiabile.

Spunto #3 – Chi? Cosa? Dove? Come? Perchè?

Non sono soltanto regia e montaggio di Ai confini del Mondo ad essere complicati: durante le sue quasi tre ore si avvicendano decine di personaggi, fra cambi di setting, alleanze strette e tradite, antiche leggende da mettere alla prova per scoprire puntualmente che “sono vere tutte”. Quelli di noi che erano alla prima esperienza col film hanno avuto qualche problema a seguire, confermando l’impressione di alcuni perplessi recensori adulti del 2007 ma non dei bambini di allora, stronzetti puntigliosi cresciuti a Harry Potter e Artemis Fowl (I’m watching you, Disney) prontissimi a seguire ogni snodo di una sceneggiatura che oggi in effetti si riscopre un filino tortuosa, quasi che il sovraccarico di informazioni tipico della serialità televisiva e cinematografica odierna fosse già allora pronto a scatenarsi, compresso però nel “breve” spazio di tre filmoni giganteschi. Eppure anche in questo caso si apprezza la cura riposta nella scrittura, con caratterizzazioni (anche le più fugaci) sempre al di sopra della media ed un livello di stratificazione tematica che almeno in parte ne giustifica la dispersività. Quanto a quest’ultima, paradossalmente, se Ai confini del mondo si rivela una visione più ostica del capitolo precedente è proprio per il privilegio rovesciato della sua maggior coesione: Dead Man’s Chest infatti, con la sua non-struttura di scene madri una di seguito all’altra, sublimava molto meglio l’impegno del suo carico di informazioni tornando continuamente accattivante e riposante, mentre qui bisogna seguire, e seguire la sera tardi bombardati dalla pubblicità di canale 5 non è il massimo.

Spunto #4 – Weird Disney

Da dove partiamo? La donna gigante che si scompone in granchietti? Il tizio incrostato alla parete che si strappa il cervello e gli dà una leccata? Keith Richards (=papà Sparrow) che mostra al figlio la testa mummificata della mamma? O quella sequenza con Jack che rincorre la nave sulle dune di sabbia dello scrigno di Davy Jones che tuttora non mi spiego, e che ha scatenato un’irriferibile discussione su Verbinski-Nolan-Malick-Bunuel-Maicolbèi dove sono usciti tutti gli scheletri dall’armadio dei cinefili? Detta in soldoni, questo film è strano. Volevo partire con un preambolo insincero, tipo “la Disney di solito è coooosì puritana ma invece stavolt..” No. La Disney è responsabile da sola di circa la metà delle immagini più perturbanti e da incubo della storia del cinema, e coi Pirati dei Caraibi non ha perso occasione di ricordarcelo. Certo, inizialmente ebbero qualche problema ad accettare la caratterizzazione effeminata e stoner proposta da Johnny Depp per il suo personaggio più iconico, ma una volta aggirate le ritrosie dei produttori, la trilogia è riuscita a passare sotto il naso di bambini e genitori tanta di quella queerness e metafore sessuali da riempirci un libro: in questo senso il primo film resta imbattuto, costruito com’è sulla pulsione-alla-pulsione di pirati resi incapaci di desiderio dalla più deprimente delle maledizioni, ma Ai confini del mondo si difende bene, con gag raffinatissime come quella in cui il conflitto d’autorità fra Barbossa e Jack sfocia in un chi ce l’ha più lungo coi cannocchiali.

Spunto #5 – Plagiare bene.

Chi era bambino in quegli anni ricorderà (o forse no) un film d’animazione DreamWorks del 2003 intitolato Sinbad – la leggenda dei sette mari, dove le novelle delle Mille e Una Notte dedicate ai viaggi del leggendario marinaio venivano rielaborate sotto forma di avventura digitale all’avanguardia, con star come Brad Pitt, Michelle Pfeiffer e Catherine Zeta Jones in cabina di doppiaggio. Fu un flop memorabile, rivisto oggi anche invecchiato male a livello di computer grafica. Ma una cosa ce l’aveva: idee grafiche davvero interessanti, che sarebbero subito finite nel dimenticatoio se i nostri furbacchioni non ne avessero preso nota riproponendone alcune in maniera pedissequa (il viaggio fra i ghiacci polari a bordo della giunca cinese è praticamente una copia carbone). Onnivora per vocazione fin dal primo capitolo, la saga aveva incrementato via via il proprio carattere di superspettacolo postmoderno che pesca in qua e in là riferimenti cinematografici, letterari, pittorici e mitologici, fino ad esplodere nell’azione convulsa, da 300 milioni di budget del terzo film, un mammut che ad ogni inquadratura sembra aspirare a porsi come ultima parola e pietra tombale sul genere avventuroso. Fra il solito Leone, Dumas e I predatori dell’Arca perduta, i prestiti più interessanti sono a volte i più epidermici (per non dire “sottobanco”), testimoni senz’altro della furbizia dei realizzatori ma, allo stesso tempo, di come i maggiori successi di un’epoca ne siano spesso anche i catalizzatori iconici, punte d’iceberg che nascondono in bella vista i progetti circostanti, consegnandoli per chi sa guardare ad una sorta di immortalità vicaria.

Spunto #6 – Un tentacolo per genere

Proviamo a elencarli tutti: innanzitutto Avventura, megacontenitore che forse solo l’affollamento, l’esaurimento di tutte le sue possibili declinazioni in questa saga ha potuto in tempi recenti restituire alla sua forma più pura. Poi commedia (anche qui in ogni possibile declinazione), fantasy, romantico, period drama (bastano la presenza e i costumi di Keira Knightley) e ancora horror, epica guerresca, monster movie, perfino accenni di intrigo spy e di erotico. Se la contaminazione dei generi è carattere tipico del cinema postmoderno e blockbuster dai tempi di Star Wars, la saga dei Pirati dei Caraibi può esserne considerata uno degli esempi quintessenziali. Imbarcarsi sulla Perla Nera significa incontrare il cinema hollywoodiano in tutte le sue declinazioni, e anche per questo, dopo tanti anni, è stato bello riprendere il mare.

Lorenzo Meloni

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