Tra i capolavori più iconici della Galleria Borghese di Roma vi è di certo la statua di Paolina Borghese, realizzata da Antonio Canova tra il 1805 e il 1808.
Camillo Borghese sposò Paolina Bonaparte, sorella di Napoleone, nel 1803 a Parigi. Il Primo Console, che di lì a un anno sarebbe diventato imperatore, accettò ben volentieri di imparentarsi con una nobilissima famiglia romana. Paolina, che all’epoca aveva 23 anni, era già vedova del primo marito, il generale Leclerc, morto di una malattia tropicale a Santo Domingo. Camillo la sposò senza neanche lasciar trascorrere l’anno di vedovanza, dopo di che i due si trasferirono a Roma presso Palazzo Borghese. Si diceva inoltre che la principessa gradisse molto passeggiare nel parco della Villa. Per questo motivo, una parte del parco, che da sempre era stata a disposizione dei romani, venne chiusa al pubblico, il che portò Paolina ad alienarsi le simpatie del popolo.
Sebbene il matrimonio non fosse dei più felici, Camillo convocò l’artista più illustre del momento per ritrarre la bellissima moglie. In realtà non si trattò di un vero e proprio ritratto, quanto più di una trasposizione idealistica e di un tributo alla bellezza della principessa, che rientra nel cosiddetto genere “grazioso” della produzione canoviana. Paolina viene appunto raffigurata come Venere, vincitrice della disputa tra dee avvenuta nel giudizio di Paride, come ci indica la mela che tiene in mano, a simboleggiare che lei era la più bella fra le dee.
La statua, trasportata al palazzo Borghese di Campo Marzio dopo la caduta di Napoleone, rimase esposta lì sino a quando nel 1820 Camillo decise di rimuoverla e di chiuderla in una cassa, avendo ormai perso tutto il suo valore simbolico e affettivo. L’opera giunse presso villa Borghese nel 1838. Inizialmente sistemata nella Stanza di Elena e Paride, nel 1889 la scultura venne definitivamente collocata nella sala I al piano terra, in accordo con gli episodi narrati nei quadri della volta del soffitto con le Storie di Venere e di Enea.

Canova ha condensato in quest’opera altissima una summa della propria cultura figurativa e ne ha fatto un’icona del proprio singolare neoclassicismo. La posa della principessa, distesa su un’elegante “agrippina” (simile a una chaise-longue stile Impero, molto usata all’epoca) rimanda al repertorio classico, alle sculture etrusche e romane sdraiate sui sarcofagi, ma anche alla tradizione della pittura veneta del Cinquecento e alle Veneri di Tiziano.
Il suo busto è nudo, mentre la parte inferiore del corpo è avvolta da una veste leggera che, scoprendo la zona lombo sacrale e sottolineando le pieghe dell’inguine, rende Paolina pudica e sensuale allo stesso tempo, caricando l’opera di un grande erotismo, che sarebbe stato assai meno sentito se la donna fosse stata completamente svestita. Le fattezze divine e il volto idealizzato trascendono il corpo di Paolina al di fuori di ogni realtà terrena, che tuttavia ci viene restituita ad una dimensione più umana solo grazie ad una patina rosa che Canova applicò sulle parti epidermiche della scultura, in modo da imitare il colore dell’incarnato e conferire all’intera opera una lieve parvenza di vita.
La scultura, per di più, appare ancor più interessante se si pensa che venne appositamente concepita per essere ammirata da molteplici visuali, visto che ciascun punto di vista è in grado di regalare nuove prospettive. Per tale ragione, Canova decise di inserire all’interno del supporto in legno su cui poggia la statua un ingranaggio in grado di farla ruotare, così che questa potesse essere osservata da ogni angolazione. In base alla direzione che l’opera assumeva, infatti, variava la quantità di luce che la investiva e in questo modo si determinavano giochi di luce e di ombre sempre differenti, facendo variare l’aspetto di Paolina all’infinito.
Tommaso Amato