Su un numero dei Cahiers du cinéma del Giugno 1964, fra dettagli e critica dei film presentati quell’anno a Cannes, si può leggere che il grottesco “est devenu propriété privèe des italiens”. Il merito di questa particolare acquisizione va attribuito a un uomo altrettanto caratterizzato: Marco Ferreri, detto da altri un milanese a Roma; o anche, il milanese di Spagna.

Interamente spagnolo è invece Rafael Azcona, sceneggiatore che affianca Ferreri. Insieme svilupparono la storia di una donna barbuta, l’idea per qualcosa di ancora più strano dopo L’ape regina. L’ambientazione: Napoli. Il Napoletano: Tognazzi. L’uomo incontra una donna (Annie Girandot) completamente ricoperta di peli, da lì la svolta: mettere su uno spettacolo, La donna scimmia (1964).

Di nuovo, il matrimonio è il luogo della convenienza, ma dove casa e lavoro coincidono si raggiunge uno stadio successivo, lo sfruttamento della malformazione e di ciò che produce. Antonio Focaccia potrebbe rappresentare una moltitudine di uomini e di animi, avere redenzione o condanna, perpetuare la sua colpa estremizzando la vergogna. E qui c’è interesse, perché in vita La donna scimmia non è stato un solo film, ma tre.

Succede, a volte, che dove la censura non interviene arrivi il produttore. È a Carlo Ponti che si deve la molteplice esistenza di cui si sta parlando, perché in sala, ai tempi, sono stati proiettati ben tre finali differenti. Due per l’Italia – l’uno il troncamento dell’altro – e un altro completamente diverso per la distribuzione francese. Questo fa sì che, analogamente, l’uomo degli anni ’60 analizzato da Ferreri non sia unico, o che, per meglio dire, i risvolti delle sue azioni possano essere vari e tutti caratterizzati dalla beffa o dall’amarezza.

Se si può capire come il primo taglio sia stato effettuato, e perché a confronto il finale voluto da Ferreri venisse considerato troppo cattivo; lo stravolgimento della versione estera è forse meno comprensibile. Non di meno, è inequivocabile la sua genialità. Pensato nell’ottica dell’happy ending, il risultato sembra invece portare all’eccesso proprio il grottesco di cui tutto il racconto è impregnato. E fa sorgere una domanda spontanea: è vero che c’è un lieto fine, ma per chi?

Tornando invece alla versione originale col finale di Ferreri nella sua interezza, ciò che rende La donna scimmia singolare è l’inserimento di un topos della storia della narrazione, quello del contatto col diverso e l’emarginato, all’interno di un ambiente particolare come la società italiana del tempo. Non è casuale il tono della commedia, così tipico, per un tema che in altri casi è stato più naturalmente inserito nel drammatico (es: The Elephant Man, 1980). E non lo sono nemmeno le conseguenze che questa scelta si porta dietro, come l’aspetto voyeuristico che, a pochi anni da La dolce vita (1960), viene mostrato attraverso una provocazione scandalizzante: il sensuale – e non straniante – spogliarello parigino di una donna ricoperta da peluria.   

La donna scimmia è fra i 100 film italiani da salvare.


Roberto di Matteo

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