Punti di riferimento nella storia dell’arte, non solo antica ma anche rinascimentale e moderna, il gruppo scultoreo dei Galati ha ispirato per secoli gli artisti. Costruito sull’acropoli di Pergamo, nel Santuario di Atena Nikephòros, all’incirca nel 230 a.C., il Donario celebrava la vittoria del re di Pergamo, Attalo I, sulla tribù celtica dei Galati; fu Attalo in persona a dichiarare guerra ai Galati rifiutandosi di pagare loro un tributo che tutti gli stati dell’Asia Minore, Pergamo compresa, dovevano loro. L’esito fu la vittoria nel 240 a.C. proprio del regno di Pergamo e, per ricordare degnamente l’illustre impresa, Attalo I commissionò il grande monumento, decorato con sculture in bronzo e forse formato da una base cilindrica su cui, sollevato di 2-3 m, si trovava il gruppo statuario. Tra le statue di questo Donario facevano parte il Galata suicida e il Galata morente, giunte a noi grazie alle copie romane. Nel santuario vennero effettuati vari scavi che riportarono alla luce frammenti di iscrizioni tra cui una con la firma dello scultore greco Epigonos, a cui vengono attribuite le opere.

Non sappiamo esattamente quante fossero le statue del gruppo, ma quello che è certo è che abbiamo due copie marmoree dell’epoca romana, databili al I sec. a.C., che ci fanno capire la grandezza e la complessità di questa opera, opera in cui contemporaneamente traspaiono l’esaltazione dei vincitori e la drammaticità mista a dignità dei vinti.

Il Galata suicida era centrale al donario, di dimensioni più alte rispetto alle altre, in modo che l’intera opera avesse una struttura piramidale, che quindi culminasse con una rappresentazione eretta verticalmente, in contrasto con le altre distese e appoggiate sul basamento marmoreo, come ad esempio il contrasto con il corpo della moglie già deceduta, le cui linee morbide contrastano con l’impeto del marito suicida. Lo stesso avviene con l’uomo vinto, ovvero il Galata Morente, raffigurato accasciato al suolo, i cui tratti somatici e i baffi erano quelli tipici delle popolazioni galliche.

La scultura del Galata Suicida è di certo quella più carica di phatos e virtuosismo, e rappresenta un guerriero galata nell’atto di suicidarsi, affiancato dalla propria sposa morente. L’uomo con la mano destra impugna una spada corta e la conficca nel petto per raggiungere il cuore, rivolgendo uno sguardo fiero verso l’alto con l’espressione concentrata e determinata a proseguire fino in fondo la sua azione. La posizione del guerriero e quello della moglie sono calcolate in modo da prevedere un movimento quasi rotatorio culminante nel braccio sollevato con la spada. Ma l’occhio dell’osservatore rimane fissato nell’attimo in cui la spada non è ancora penetrata del tutto. È la fine di tutto. Sentiamo la tragedia, la morte che circonda le due figure, sempre più vicina, ma anche il valore e la dignità dei due protagonisti: il guerriero preferisce uccidere la propria compagna e dare la morte a se stesso piuttosto che cadere prigioniero degli odiati nemici. Prende la sua ultima decisione, con coscienza e coraggio. L’eroismo è tangibile.

Il corpo è nudo, coperto solamente da un mantello che avvolge leggermente il collo e copre la schiena del guerriero. La muscolatura e l’anatomia sono rese nei minimi dettagli. La figura femminile è appoggiata sulle ginocchia, coperta da un vestito dettagliato nella resa del panneggio. La testa, drammaticamente rivolta verso il basso mostra un volto privo di vita, così come suggerisce anche il braccio abbandonato che sfiora il suolo.La scultura evoca profonde sensazioni di eroismo a evidenziare il valore dei vinti e quindi, di riflesso, anche quello dei vincitori.

Nel Galata morente il guerriero è semisdraiato e sofferente per la ferita inferta dal nemico. Completamente nudo si trova su un plinto ovale su cui compaiono una spada con accanto il proprio fodero, una cintura con fibbia squadrata e due corni; la gamba sinistra leggermente allungata contrasta con la destra, leggermente flessa; solo il braccio destro permette all’uomo di reggersi in equilibrio, mentre quello sinistro è piegato, permettendo alla mano di poggiarsi sulla coscia destra; il torso ruota verso destra, cercando un maggiore appoggio; la testa è piegata pietosamente verso il basso, in segno di rassegnazione e resa, l’espressione è sofferente, le sopracciglia aggrottate ma la dignità rimane, dignità di un guerriero che attende coraggiosamente la morte.

I due Galata, nati quindi molto probabilmente insieme, si trovano oggi purtroppo separati: il Galata Suicida conservato presso il Palazzo Altemps, mentre il Galata Morente presso i Musei Capitolini. Queste opere ci mostrano come anche nei momenti più bui si può trovare il coraggio di accettare il proprio destino e di affrontare la fine a testa alta, con coraggio e dignità.

Tommaso Amato

Pubblicità