Era il 2007 quando Alessandro Giovannesi approdava a teatro con la pièce Happy Family, opera di ispirazione pirandelliana che riscosse un notevole successo, tanto che tre anni più tardi il regista premio Oscar Gabriele Salvatores decise di trarne un lungometraggio.

Affiancato dallo stesso Giovannesi, sia in fase di scrittura che di regia, l’autore napoletano mutua dal testo originale una commedia atipica per il panorama nostrano. Lasciandosi alle spalle le mostruose maschere all’italiana, il tono del film viene settato su un registro tragicomico che avvolge una serie di personaggi problematici, magari respingenti ma resi tollerabili da un senso di vulnerabilità che rappresenta il denominatore comune della loro caratterizzazione. Personaggi che chiedono disperatamente di essere completati, di vedere l’arco della loro storia concluso e che implorano di essere messi al corrente di ciò che seguirà alla loro condizione precaria.

Il personaggio/autore porta le sembianze di uno smarrito Fabio De Luigi, scrittore disperato, solo e disilluso che cerca di esorcizzare la perdita di controllo sulla sua vita plasmando delle creature in cui instilla i suoi disagi. Ma cosa accade quando la finzione si mostra più vera e stratificata della realtà stessa? Nasce la voglia di abbandonare, di chiudere il sipario o di passare al nero anticipando di mezz’ora i titoli di coda. E allora ecco la rivolta dei personaggi che esigono di non essere abbandonati, spingendo il loro creatore ad uno sforzo che non significherà solamente portare a termine il proprio lavoro, ma soprattutto scontrarsi con la propria incapacità a vivere.

E allora si capirà che ogni storia, per quanto sbagliata o complessa, necessita di un lieto fine. Una chiusa dolce, anche se non per forza confortante, e sentita come imprescindibile per qualsiasi narrazione che si rispetti, ma che al contempo può essere raggiunta solamente grazie ad un lento e faticoso processo di inseguimento. Non esistono finali accomodanti per chi non sa soffrire e combattere per essi, solamente sospensioni inautentiche e inappaganti.

Per dare vita sullo schermo a questo ironico dramma metanarrativo, Salvatores reinventa il proprio marchio estetico plasmandolo su quello della commedia sofisticata americana del secolo corrente. Dalle esplosioni di luce dorata, accompagnata da abiti e scenografie, che ricordano il Woody Allen post 2000, alla ricerca di una geometria registica che, sostenuta da un montaggio brulicante di stacchi comici, non può fare altro che richiamare lo stile cartoonesco di Wes Anderson. Intenti chiari e ambiziosi che non sempre portano al raggiungimento di quell’aura colta e divertita che rappresenta l’obiettivo degli autori, ma che pur senza eccellere trova una forma consona all’efficace esposizione dei propri temi. “Una storia dedicata a chi ha paura”, dice l’Enzo di De Luigi prima di mettersi a scrivere, un film che racconta come le paure stesse vadano affrontate e sconfitte per raggiungere la felicità.

Andrea Pedrazzi

Pubblicità