Se si chiudono gli occhi e, poco dopo, si prova a riaprirli e ci si imbatte casualmente in un quadro di De Chirico, sembrerà quasi di non averli mai riaperti: l’ambientazione che si parerà sotto lo sguardo attento e incredulo dell’osservatore sarà quella tipicamente onirica, caratterizzata da una fonte di luce irreale, da un intenso gioco di chiaroscuri e dalla presenza di volumi marcatamente definiti, che si esplicano in un insieme di elementi che lascerà stupito l’osservatore, facendogli credere di essere ancora ad occhi chiusi.
L’opera in questione, per l’appunto un gioco di luci e ombre olio su tela tipico della pittura metafisica, è stata composta nel 1913 ed è caratterizzata da una forte enfasi dell’aspetto geometrico che mette in evidenza angoli e spigoli presenti, i quali arrivano a trasmettere all’osservatore, intento nella ricerca di un’interpretazione personale dell’opera stessa, un senso di distacco, probabilmente da ricondurre proprio al titolo del dipinto: “Nostalgia dell’infinito”. E infatti, se si pensa all’infinito, lo si riconduce solitamente a un che di indefinito e di non descrivibile tramite forme e linee, che lo ingabbierebbero inevitabilmente, facendogli perdere il suo stesso significato. E paradossalmente, la presenza di una geometria marcata, di angoli, di spigoli e di linee spezzate potrebbe mettere in crisi l’osservatore, che si concentrerà, quindi, sulla ricerca di un’interpretazione che coniughi i due aspetti. O forse no.
Infatti, la seconda parte del titolo fa riferimento all’aspetto della nostalgia, alla quale si può ricondurre l’immagine dei due soggetti che, posti al centro della scena, si abbracciano, avvolti dalle proprie ombre, come per tentare di mettere fine a quell’eterna sensazione di profonda nostalgia per qualcosa che si sente continuamente e inevitabilmente di aver perso.

Come nella maggior parte dei quadri di De Chirico, è evidente l’equilibrio cromatico che caratterizza l’opera, che poggia sull’elemento geometrico per soddisfare ancor meglio l’osservatore, che non potrà non compiacersi nell’ammirare il gioco di luci e ombre che pervade il dipinto e che permette a chi osserva di concentrarsi, spostando lo sguardo a poco a poco, sui diversi particolari che costituiscono l’opera.
Giorgio de Chirico (Volo, 10 luglio 1888 – Roma, 20 novembre 1978), noto pittore e scrittore italiano, fu tra i massimi esponenti della pittura metafisica. A colpirne significativamente la sensibilità artistica fu in primis la città di Ferrara, in cui l’artista rimase per circa tre anni e mezzo, dopo che vi fu mandato con il fratello. Partecipò, poi, alla Biennale di Venezia (1924 e 1932) e nel 1935 alla Quadriennale di Roma, città in cui trascorse gran parte della sua vita.
Seppe raffigurare in modo sapiente scene così particolari da avviluppare l’osservatore in un mistero senza fine.
E a pervadere il dipinto in questione è proprio una sensazione di amarezza e di rammarico per la perdita della possibilità di catturare l’infinito a far da padrona della scena rappresentata, tanto che il pittore, come avvolto in un’attesa che sembra non esaurirsi mai, tenta di immobilizzarla in una sorta di fotogramma che arriva ad identificare e a cogliere l’attimo immediatamente precedente al compimento dell’azione, come a voler permettere all’osservatore di immedesimarsi nel pittore stesso, privilegiato per aver potuto immortalare quel preciso istante, quello stralcio d’infinito la cui effimera cattura genera inevitabilmente un senso di profonda nostalgia.
Chiara Pirani