– È vero che ci hai insegnato tu ad allacciarci le scarpe?
– Non credo di avertelo insegnato io. Forse hai imparato da solo guardandomi.
Un bagliore apre la 77ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, velata di un’atmosfera sommessa, quasi sottotono, per l’assenza dei grandi nomi dell’edizione precedente. La folla al Lido è diradata, l’applauso non è più uno scroscio, la condivisione della sala con gli altri spettatori è sottoposta a un’accortezza procedurale, tra mascherine e distanziamento sociale. Ma l’opera di Daniele Luchetti promette un festival che ancora rivolge uno sguardo di speranza al cinema, alla faccia di chi, nel panorama post-quarantena, lo dà per morto ignorando l’adattabilità e la continua trasformazione dei media.
Luchetti propone, dall’omonimo romanzo di Domenico Starnone, la visione di un focolare domestico dall’aria vetusta nella Napoli dei primi anni ‘80. La dissoluzione della famiglia è causata dalla percezione che sia una questione di aderenza a un gesto definitivo, piuttosto che un atto d’amore. Il tentativo di tenere coeso un ideale di famiglia che già è decaduto è l’ostinazione di Vanda (Alba Rohrwacher), in continua lotta con il marito Aldo (Luigi Lo Cascio), un “banale acuto” che sfoga la vergogna del tradimento per vie traverse.
Con il suo continuo spostamento dei punti di vista – dallo sguardo dei genitori a quello dei figli, tra presente e passato – Lacci riesce a problematizzare la concezione di famiglia nucleare come condizione data di natura, come patto sancito dal vincolo matrimoniale in cui all’esser coniuge corrisponde una funzione riproduttiva.

“Per stare assieme bisogna parlare poco e tacere tanto” è convinto Aldo; lui che ha fatto della sua voce un mestiere, lo speaker radiofonico. Ed è proprio dietro il vetro della cabina di registrazione che si rivela l’incomunicabilità della coppia. Un crimine mai ammesso che va a modellare i legami famigliari e il funzionamento di figli, che prendono i difetti dei genitori e poi li peggiorano.
L’attenzione per il sonoro rimarca la colpa di questa incomunicabilità: nei momenti di esplosione conlittuale l’audio viene quasi portato alla saturazione attraverso la scelta di porre i microfoni al livello degli attori, già assillati dal primo piano. Ma Lacci trova il suo apice drammatico nel metaforico silenzio per negazione che nasconde un conflitto troppo articolato per essere elaborato dai bambini. La voce è rimossa, l’audio interrotto, il trauma è allontanato da sé.
Finché i bambini non si ritrovano adulti, a compiere il passaggio generazionale davanti a una scelta: seguire a ritmo di fanfare il passo predestinato dai genitori oppure risolvere il rompicapo per compiere il gesto definitivo di liberazione.
Lacci uscirà nelle sale italiane il 1° ottobre 2020 per 01 Distribution.
Giulia Silano