“Troppe storyline” è il concetto che viene ripetuto come un salmo nelle recensioni di Le strade del male. In effetti, se qualcuno ci chiedesse di raccontargli anche solo le premesse, ci ingarbuglieremmo la lingua nel tentativo di enumerare i fatti di sangue che si abbattono senza tregua su due generazioni di Americani del ‘900 al confine fra il profondo Midwest e l’ancor più profondo Sud. Ma il problema (posto che si debba trovarne uno) non sta soltanto nel numero di personaggi e linee narrative appena abbozzati, che rischiano di perdersi o comunque di riuscire poco memorabili, compresse come sono fra le cento altre che compongono un affresco smisurato; è che tutto in Le strade del male sembra riconducibile a un principio over-narrativo, dove i generi del racconto storico, del melodramma/saga familiare e del gotico sudista vengono radunati come bestie da latte e drenati di ogni risorsa, ogni dettaglio, ogni sfizio feticistico.

Il punto non è l’ipertrofia in quanto tale, ma la possibilità che questa offre – confermata a livello subliminale proprio dagli attacchi della critica – di elevare la narrazione stessa a fulcro del discorso, raddoppiando e complicando la tematica interna dell’homo americanus che vive tutta la propria vita pendendo dalle labbra del predicatore, aggrappandosi alle Scritture in uno sforzo di fede che approccia e spesso lambisce il fanatismo. Come in Murder Ballads (1996) di Nick Cave, o meglio ancora nel “cugino” Netflix La Ballata di Buster Scruggs (2018) on cui fra l’altro condivide la presenza raggelante di Harry Edward Melling (Dudley della saga di Harry Potter), il punto del viaggio non è nelle conclusioni ma nel viaggio stesso, che – itinerario nel folklore avventuroso del western o in quello omicida delle ballate appalachiane – si propone anzitutto di scandagliare una modalità del racconto, come suggerisce il libro di fiabe disneyano con cui si apre il film dei Coen.

The Devil All The Time (L-R) Bill Skarsgård as Willard Russell, Michael Banks Repeta as Arvin Russell (9 Years Old). Photo Cr. Glen Wilson/Netflix © 2020

La quantità industriale e assolutamente implausibile di omicidi e disgrazie, la scelta di stratificare molti avvenimenti con la presenza di canzoni che ne riechaggiano e ri-narrativizzano i temi, oltre ovviamente alla presenza dello stesso Donald Ray Pollock (autore del romanzo di partenza The Devil All the Time, 2011) nel ruolo di voce fuori campo puntano tutte nella stessa direzione, quella del bestiario o canzoniere che in più si fa “racconto dei racconti”. Se forse per una volta è davvero questione di pornografia, altro concetto giustamente ricorrente nella ricezione del film e che vi ha non a caso grande peso diegetico, bisognerebbe però parlare di una pornografia capace, anzi volenterosa di segnalarsi come tale e così facendo di dire qualcosa sui modi del nostro rapporto con la visione. La pornografia non è solo nell’esibizione di violenza offerta allo spettatore, nelle cinquanta e coda sfumature di sordido che delizieranno i fan di ‘O Connor e McCarthy. Intesa come rapporto avvolgente, totalizzante e fideistico con “il narrativo”, si può considerarla principio unificante fra l’esperienza dello spettatore irretito nella visione e quella dei personaggi irretiti nel loro mondo di punizioni divine e vittime sacrificali.

Anche troppo facile trarre conclusioni sui fanatismi americani di ieri e di oggi, sul rapporto strettissimo fra la cecità e chiusura di quell’America profonda e la spirale di violenze storico-sociali che il film in parte racconta, aprendosi all’indomani degli orrori della seconda guerra mondiale e chiudendosi in pieno Vietnam su un’autostrada anni ‘60 di promesse dolci ma forse ingannevoli come quella di Easy Rider (1969). Altrettanto evidente il legame con una contemporaneità segnata da trumpismo, fake news e Black Lives Matter, dove però The Devil All the Time gioca forse la sua carta più originale: anzichè far piovere fuoco sul “vecchio”, sull’arretratezza medievale che ancora inquina una società incapace di andare verso il futuro, Antonio Campos  ha fatto – in questo massimamente inquietante – un film di soli giovani, dove tolti un paio di personaggi di contorno il più maturo del superbo cast corale assemblato dall’italo-brasiliano-newyorkese non arriva a quarant’anni. Non è un’America vecchia a spargere questo sangue ma una con tutte le energie, la risolutezza e la violenza della gioventù. Non è un paese per vecchi ma neanche un paese di vecchi. Non esistono Tommy Lee Jones né Clint Eastwood né Robert Redford, solo giovani predicatori invasati alla Wise Blood persi in un mondo di immagini e parole. E il presente è nelle loro (nostre) mani.

Lorenzo Meloni

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