“Metà del mio cuore per renderti integro. La sua forza per rafforzare la tua debolezza. Vivi, e rammenta il tuo giuramento..”
È troppo retorico dire che un solo weekend si è portato via le due metà del nostro cuore? Dipende dal rapporto del lettore con il film di cui ci accingiamo a parlare. Non fraintendetemi, i due signori scomparsi quasi assieme lo scorso 31 ottobre e 2 novembre sono stati tanto universalmente amati da rendere questo tremendo uno-due un K.O. emotivo per milioni di Italiani. Se però eravate (o avevate) bambini tra fine anni ’90 e primi anni 2000, l’associazione fra i nomi di Sean Connery e Gigi Proietti avrà per voi un suono tutto particolare, gettando un malinconico velo di coincidenza sull’addio a due giganti che erano anche, come dire, un po’ nostri papà.
Proprio di suono è giusto parlare, quella dimensione che al pari degli odori e più della vista si dice sia capace di scavare solchi profondi nell’inconscio. Fondamentale – c’è da dirlo? – nella carriera di Proietti, la cui ricchezza e duttilità vocale non hanno mai cessato di sbalordire il suo pubblico mentre si destreggiava con pari abilità fra cinema, teatro e televisione, fra un miliardo di monologhi e altrettante canzoni. Più facile da misconoscere in Connery, almeno finchè non si riflette su quanto abbia contribuito alla sua figura divistica la marcata inflessione scozzese che conferiva con sprezzo del pericolo a personaggi della più svariata provenienza (ha provato di tutto, dall’inglese all’arabo, dal greco-miceneo al russo, una sagra dello “scots-washing” tanto divertente quanto inammissibile nel cinema di oggi). E c’è bisogno di ricordare che sono tre parole a farlo entrare nel mito, pronunciate in un baritono talmente incisivo e orecchiabile che Roger Moore dichiarerà di aver passato ore a cercar di capire come non imitarlo? “Bond. James Bond”.
In tutto questo Dragonheart (1996) risulta preziosissimo, perchè permette di tematizzare l’importanza (per la verità molto diversa) del doppiaggio nelle carriere dei nostri. Per Connery esperienza tanto più significativa in quanto rappresenta quasi un unicum, che va ad aggiungersi allo sparuto gruppo composto da qualche documentario sportivo e dai videogiochi ispirati a 007; per Proietti, divenuto vera e propria star del microfono con il tour de force di Aladdin (1992) dopo decenni di performance assai meno ricordate di quanto non meriterebbero, l’occasione di bissare gli oneri/onori di quel momento, dimostrando ancora una volta di potersi misurare alla pari con le star hollywoodiane di più alto profilo nei loro ruoli showcase e di poterne consegnare al pubblico italiano tutta la magia, l’istrionismo, il calore.
La caratura stellare di entrambi gli interpreti si confà perfettamente al ruolo di Draco, creatura digitale per l’epoca straordinaria, a cui toccava il non facile compito di cercare di far spalancare ancora di più gli occhi di un pubblico ancora frastornato dalle meraviglie di Jurassic Park (1993). E se la cgi approntata per l’ultimo dei draghi, pur notevole per i suoi venticinque anni, è invecchiata sensibilmente peggio rispetto agli abitanti del parco preistorico di Spielberg (ma trovatemi voi ancora oggi qualcosa che regga il confronto), è anche perché i realizzatori portarono la sfida ai massimi livelli di difficoltà, avendo il fegato di inquadrarla spessissimo in piena luce diurna, con un uso molto ridotto degli animatronic e col doppio onere di dover aggiungere alla buona resa dinamica e cromatica un livello di espressività ed empatia capace di rivaleggiare con i contemporanei esperimenti Pixar, assolutamente senza precedenti per il protagonista di un film live action.
Draco infatti non era solo l’ultima meraviglia in fatto di computer grafica, e Dragonheart non era solo una confezione per effetti speciali all’avanguardia. Era – ed è ancora – uno dei fantasy più divertenti, sfaccettati e commoventi usciti da quel decennio non esattamente fecondo per il cinema epico, dove per ogni Braveheart (1995) usciva un Il tredicesimo guerriero (1999), sfortunata saga dark-vichinga di John McTiernan andata talmente male al botteghino da far dire a Roger Ebert, a un anno da Il Gladiatore e tre da La compagnia dell’anello, “oggi il pubblico non vuole più battaglie”. Ed era davvero un film dal cuore, oltre che enorme, doppio: pare che il primo draft di Charles Pogue e Patrick Johnson abbia subito riscritture continue, che pur lasciando invariate le basi del racconto ne smussarono l’originaria cupezza aggiungendo alla vicenda le risate e quel pizzico di slapstick necessari a renderlo vendibile anche a un pubblico di famiglie. Il risultato, a meno che non prendiate per dettami evangelici la compartimentazione per fasce d’età del mercato cinematografico americano, è un miracolo rarissimo nel cinema degli ultimi decenni, un film di avventure fantastiche con tutti gli elementi – quelli buffi e quelli solenni – che da sempre si cercano in un’epopea degna di questo nome.
Esilarante e tragico. Classico e post-modernamente autoconsapevole nella bellissima figura di Fratello Gilbert (il compianto Pete Postlethwaite), un Chaucer/Sancio Panza che a dorso di mulo segue il protagonista Bowen (Dennis Quaid) per documentarne le gesta. Intriso fino al midollo di spiritualità cristiana ma proprio per questo audace nel trattare il tema scivoloso della morte, temuta eppure desiderata dal malinconico Draco in un atteggiamento di rinuncia che rischia di costargli l’ascesa al paradiso dei draghi. Pieno di inni al valore guerriero, ma rivestito di umile abnegazione (“un cavaliere è votato al coraggio/la sua spada difende gli inermi/le sue parole dicono solo la verità”), senza la boria superomistica di tanto cinema epico fuori e dentro Hollywood e senza la minima reverenza per l’istituzione monarchica, demonizzata su tutta la linea fino a un epilogo che per una volta non vede il protagonista ascendere al trono ma governare da uomo del popolo un popolo senza più re.
Scommettiamo che Connery, indipendentista scozzese quando non era “al servizio segreto di Sua Maestà”, sorridesse sotto i baffi al pensiero di una creatura col suo inconfondibile accento che porta rovina alla casa reale britannica; in ogni caso quella parlata buffa e un po’ gutturale dà al suo Draco un sapore antico per una volta assolutamente appropriato; Proietti rispose da par suo, tirando fuori dalla lampada magica del suo… genio tutto un repertorio animalesco di soffi, masticazioni e consonanti incerte, irresistibilmente comico finché l’altro lato del personaggio (triste, nobile, dolcissimo) non prende il sopravvento in un sospiro profondo e musicale. Impossibile, per salutarli, resistere alla tentazione di riadattare quel meraviglioso finale, che neanche a dirlo, parla di come i grandi non ci abbandonino mai. “Che cosa faremo ora? A chi ci rivolgeremo?” La risposta la sapete già. Altrimenti, è tempo di scoprirla.
Lorenzo Meloni