Non amo che le rose
che non colsi.
Non amo che le cose
che potevano essere e non sono
state […]
I colloqui escono nel 1911 e sono considerati la più importante raccolta del poeta torinese Guido Gozzano. Il titolo si riferisce ad una poesia che si costruisce sui toni del colloquiale, prendendo le distanze dall’artificiosità linguistica e letteraria; la prima e l’ultima poesia prendono infatti il nome de “I colloqui”, termine che rimanda dunque a un qualcosa di quotidiano.
L’opera è strutturata in tre distinte sezioni, intitolate rispettivamente Il giovenile errore, Alle soglie e Il reduce. Gozzano stesso ha più volte sottolineato che, nonostante l’apparente varietà dei testi, essi dovessero in realtà essere presi in considerazione come le tessere di uno stesso mosaico.
Gozzano inizia il suo discorso all’interno di un’atmosfera confidenziale, introducendoci alla dimensione dell’interiorità del poeta: ci dice che ha solo venticinque anni ma è ormai diventato vecchio, ha la consapevolezza di non aver vissuto appieno e si accorge che questi anni avrebbero potuto essere un “bel romanzo” se li avesse vissuti diversamente:
O non assai goduta giovinezza,
oggi ti vedo quale fosti, vedo
il tuo sorriso, amante che s’apprezza
solo nell’ora triste del congedo!
Venticinqu’anni!… Come più m’avanzo
all’altra meta, gioventù, m’avvedo
che fosti bella come un bel romanzo!
Grande motivo di sconforto è l’opprimente sensazione del tempo che scorre senza tregua, in una giovinezza che si chiude alle gioie che essa dovrebbe portare con sé.
Il poeta, nonostante la sua giovinezza, è come se già sentisse l’incombere della futura malattia e avverte l’esigenza di ripensare al proprio passato. Il passare degli anni trasforma la gioventù del poeta in un ricordo idealizzato, un «bel romanzo» che si contrappone alla pesantezza del presente.
Il giovane Gozzano però non è il vero protagonista di questo romanzo, ma si percepisce come semplice spettatore della vita intensa e spensierata vissuta dal proprio «fratello muto»:
Ma un bel romanzo che non fu vissuto
da me, ch’io vidi vivere da quello
che mi seguì, dal mio fratello muto.
Questo fratello è come un alter ego del poeta, colui nel quale ha riposto tutte le speranze e proiettato i propri obiettivi. Tuttavia, si tratta di un personaggio fittizio, illusorio, e la “letteratura” ancora una volta non è che l’unica effimera possibilità di preservare la giovinezza.
Non vissi. Muto sulle mute carte
ritrassi lui, meravigliando spesso.
Non vivo. Solo, gelido, in disparte
sorrido e guardo vivere me stesso.
L’io del poeta è il principale referente di questa operazione di esplorazione interiore; l’indolenza del poeta è molto forte in questi versi conclusivi che ritraggono l’io lirico nell’atto di guardarsi vivere. Per Gozzano è necessario sdoppiarsi per potersi osservare e comprendere dall’esterno.
Focalizzarsi su questa poesia che apre l’intera raccolta è necessario a comprendere il senso generale dell’opera, il cui nucleo centrale sta proprio nel tentativo di comunicare i risultati di tale confronto tra il poeta e il suo io più nascosto. Attraverso I colloqui Gozzano traccia il profilo di un tortuoso percorso mentale che ne farà emergere tutta l’inquietudine e oscillazione tra una rassegnazione definitiva e piccoli barlumi di speranza. È un’analisi molto profonda della propria anima, un’interrogazione brutale che, tuttavia, porterà alla fine ad una migliore comprensione e accettazione di tutta l’incoerenza e la fragilità che lo appartiene.
E non sono triste. Ma sono
Stupito se guardo il giardino…
stupito di che? non mi sono
sentito mai tanto bambino…
Stupito di che? Delle cose.
I fiori mi paiono strani:
ci son pur sempre le rose,
ci son pur sempre i gerani…
Ilde Sambrotta