Anche se parliamo della madrina del grottesco, dobbiamo mettere da parte per un attimo l’isteria morettiana contro Pasqualino Settebellezze o l’amore/odio per la coppia Giannini-Melato e le atmosfere che caratterizzeranno la sua produzione degli anni ‘70.

L’esordio di Lina è infatti un film che recupera il tema dei Vitelloni e lo traspone nell’arida e desolata Lucania, terra dimenticata dal boom economico, dal cinema e probabilmente anche da Dio.

Una terra che, ancor più della Rimini pigro-borghese e balnearia di Fellini, non è sincronizzata con il resto d’Italia ma vive “fuori della Storia e della Ragione progressiva, antichissima sapienza e paziente dolore” come disse Carlo Levi.

I Basilischi è una splendida galleria di volti scolpiti dal tempo e di gesti che ormai ci sembrano lontani anni luce ma che sono ancora qui in mezzo a noi; le stesse forze continuano a scorrere sotterranee e ad influenzare il nostro modo di essere, il modo in cui una parte di noi interpreta il mondo.
Alcuni dettagli esteriori sono cambiati (oggi ci sono le autostrade e gli smartphones), ma l’essenza resta la stessa, e non solo in Basilicata.

Prendiamo ad esempio la bellissima sequenza della controra. La scena non è solo un ritratto di un paesino che sprofonda nel riposino postprandiale o un richiamo alla presentazione dei vitelloni…
La controra è uno stato mentale, un archetipo, un rituale che restituisce a Morfeo la sovranità che gli spetta di diritto: santo patrono dell’oblio e sindaco eterno di questa perduta gente. Il sonno smorza i toni, placa le tensioni della società, ricorda la vanità delle vicende umane e rassicura. Finché dormirete andrà tutto bene.

Allo stesso modo i basilischi sono dei tipi psicologici sospesi nell’eterno presente e anestetizzati dall’attesa: vorrebbero prendere parte all’euforia del progresso, ma senza abbandonare la comodità del mondo che conoscono; studiano per noia o per accedere ad un lavoro preparato per loro dai genitori; parlano per ore di donne (che nel frattempo si stanno emancipando) con gli stessi toni dei loro nonni.
Il futuro è un disco cantato del quale nessuno sa interpretare il messaggio, una promessa di liberazione che per inedia nessuno prova a realizzare. 

Nel paese ci sono solo statue semoventi che ripetono una parte sempre uguale. Avanti e indietro per la via principale, su e giù per lo stesso marciapiede a (s)parlare di tutti, per far passare il tempo. La grande città è per i giovani un miraggio che una volta materializzatosi delude… perché alla fine in paese ci si conosce tutti e non ci sono sorprese.

Questo circolo vizioso viene presentato con schiettezza nel dialogo tra due dei protagonisti: “Quello, mio fratello, dice che è meglio stare sopra che sotto. E a questo serve qua la politica. Non c’hanno ideali, né idee. degl’altri se ne fregano. Vivono qua, in questo modo e non hanno nessuna pena né per gli altri né per loro stessi. Tutti poveracci… basta che io sto sopra e voi sotto. Basta che io comando. Questo è mio fratello. […] Giovanni me ne voglio andare!”

"È sbagliato, non dobbiamo scappare, non dobbiamo andare via. È qua che avimmo a sta! È qua che devono cambiare le cose. E se ce ne andiamo tutti qua chi resta? "

Cercare di cambiare le cose in un paese senza biblioteche, teatri e con un solo cinema è un’impresa che metterebbe a dura prova chiunque volesse anche solo pensarla. Per questo nel film non c’è traccia di giudizi moraleggianti o di prese di posizione retoriche nei confronti dei personaggi. Non si possono mettere i colpevoli da una parte e le vittime dall’altra. Tutti sono contemporaneamente vittime, carnefici e vouyers, crisalidi che cercano di difendere il proprio mucchio di polvere.

L’immancabile tocco grottesco esplode in alcune scene veramente notevoli: l’appuntamento combinato in segreto, il pranzo silenzioso carico di senso di colpa, il malocchio a distanza, la breve incursione degli intellettuali cittadini che fuggono terrorizzati, il matrimonio combinato.
I basilischi, come le statue, non hanno colpa, al massimo generano in chi li guarda un po’ di compassione per il loro destino.

A distanza di molti anni il ciclo di affreschi creato da Lina Wertmüller non solo rimane godibilissimo ed estremamente ben fatto, ma come il buon vino migliora.

Marco Lera

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