LUNGOMETRAGGI

Regia di Visar Morina

Xhafer arriva dal Kosovo, ma sembra essersi ben integrato in Germania: guadagna bene come ingegnere chimico per un’azienda tedesca, ha una moglie perfettamente ariana, tre figli nati e cresciuti su suolo germanico. Non ha tendenze islamiche fuori dall’ordinario e più o meno si confonde tra il pallore generale dei suoi colleghi d’ufficio sudaticci. Ma allora perché lo escludono non solo dalle mailing list, ma anche dalle occasioni di socialità? Non gli vengono forniti i campioni da analizzare, perciò il suo lavoro procede a rilento. I compagni d’ufficio fanno finta di non capire e lo ignorano in modo passivo aggressivo.

Giusto il tempo di parlare della sua fobia dei topi ed eccone uno che appare impiccato sul cancello del suo vialetto. Il ratto dopotutto non è un nuovo simbolo subumano per una Germania che vive ancora la colpa storica dell’antisemitismo.

Eppure, il suo capo ha fatto un discorso motivazionale davanti a tutti per provare quante opportunità di imparare stiano dando a chi proviene dalle “Altre Culture“. Per Xhafer è la testimonianza di un paese finto progressista e ipocrita che rifiuta gli stranieri attraverso microaggressioni e pregiudizi etnici, piuttosto che palesare il proprio razzismo con epiteti dispregiativi e gesti da rivendicare. La ricerca dei colpevoli che lo perseguitano dirige ormai le sue azioni, mentre tutt’intorno le ambientazioni ingialliscono sotto le luci cromo e verde acido di Matteo Cocco, putride come i roditori che gli infestano il cervello e la cassetta delle lettere.

“Hai mai pensato che succede non perché sei straniero ma perché sei uno stronzo?”, provoca la moglie Nora con fare scettico. Avviluppato nella paranoia, il volto implacabile di Mišel Matičević tenta di contenersi. Ormai le ossessioni che lo tormentano sul lavoro le ha portate a casa, e meno male che non è il tipico kosovaro che picchia la moglie come si dice in giro. Su un altro piano rispetto ai colleghi, distanziato dall’altro lato del campo mentre cerca di comunicare con il capo e ora smarriti anche fiducia ed empatia nei confronti della moglie, corpo tagliato dall’inquadratura, Xhafer si è ormai esiliato dalla propria vita come già l’alienato Matt Dillon in Nimic di Jorgos Lanthimos. Ma al contrario di quest’ultimo, in Exile l’uso dell’enfatizzazione musicale è molto contenuto per essere un thriller: la colonna sonora di Benedikt Schiefer, anziché fare da tappeto musicale, rimane un intervento occasionale. Solo un battito irregolare, una eco accorata o striduli accorpamenti di note preannunciano la prossima anomalia.

Arrivato dal Kosovo come rifugiato politico, Visar Morina allinea la regia al punto di vista del protagonista e ci pone davanti agli occhi cosa vuol dire essere l’Altro in un paese straniero. Tuttavia, non affronta i temi del razzismo e dell’inclusione con uno sguardo antropologico (come visto al Trieste Film Festival con Acasă – My Home), ma neanche banalizzando la questione delineando sommariamente i ruoli di vittima e carnefice, bullo e bullizzato. In fase di scrittura, accompagnato da Ulrich Köhler, Morina gioca con l’ambiguità per confezionare un buon thriller a bassa tensione, che cuoce a fuoco lento lo spettatore per smentire continuamente i suoi (pre)giudizi sulla visione.

Giulia Silano

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