L’8 febbraio 1931, novanta anni fa, la traiettoria del suo destino era già insita nel secondo nome.

Nato in piena Grande Depressione nello stato dell’Indiana e cresciuto dagli zii in seguito alla morte della madre, James Byron Dean ha attraversato infatti un’adolescenza segnata dalle caratteristiche tipiche dell’eroe byroniano che l’avrebbero marchiato come un’icona immortale: temperamento dirompente, tendenza all’autodistruzione, talento ingestibile, necessità costante di sfuggire ad ogni imposizione.

Sono proprio gli anni della fanciullezza, contraddistinti da quel vuoto causato dall’assenza della figura materna e dal conflittuale rapporto con il padre, ad ospitare la ricerca da parte di Dean della propria identità umana ed artistica. Ed è proprio nel suo corpo, nel suo way of life e nella sua spregiudicata libertà che si possono rintracciare tanto i segnali di una società in cambiamento quanto le peculiarità di una parabola esistenziale presto al capolinea: il 30 settembre 1955, a seguito di un incidente a bordo della fantomatica Porsche 550 Spyder, Dean avrebbe perso la vita a soli ventiquattro anni.

I fattori che hanno diffuso il mito di Dean e che ne hanno fatto una figura di culto della seconda metà del Novecento sono molteplici e attualissimi, spesso alimentati da false leggende. Certo è che la sua carriera sia stata un percorso tumultuoso che, tra gli studi televisivi di Los Angeles e l’Actors Studio di New York, lo ha portato a confrontarsi in appena dieci anni con forme di espressione variegate come la televisione e il teatro, fino alla trilogia cinematografica del cosiddetto “ribelle incompreso”, etichetta attribuita dai manuali di storia del cinema che in fondo non è poi così scontata.

Il primo titolo è La valle dell’Eden (East of Eden, Elia Kazan, 1955), debutto da protagonista per Dean che, dopo l’interesse suscitato a Broadway nell’adattamento teatrale de L’immoralista di André Gide, viene chiamato a Hollywood da Kazan per la parte di Cal Trask. Questo giovane irrisolto, animato dalla conquista dell’amore paterno e dall’espulsione biblica del fratello, non solo gli permette di mettere in pratica i precetti del metodo Stanislavskij, ma implica anche un confronto che segna una distanza abissale tra due generazioni di attori, di uomini, di personaggi: la scena in cui, al culmine della disperazione a causa del rifiuto del padre, improvvisa un abbraccio con Raymond Massey gli consente di affermarsi come una delle nuove star hollywoodiane e gli varrà la sua prima candidatura postuma al premio Oscar. 

Gioventù bruciata (Rebel Without a Cause, Nicholas Ray, 1955) è la seconda opera che colloca definitivamente la maschilità turbolenta di Dean nella mitologia, intrecciando il racconto di questo “ribelle senza motivo” con quello di un’identità costruita secondo le aspettative sociali, insieme allo sgretolamento dell’istituzione familiare e alla ridefinizione delle dinamiche di gender. Il tormento di Jim Stark, incapace tanto di dialogare con i propri genitori quanto di inserirsi nella comunità, è in fondo lo stesso di Dean: la ribellione di Jim, iconograficamente racchiusa in quella T-shirt bianca e in quella giacca rossa che avrebbero segnato la moda di un’epoca, è la condizione di un individuo smarrito che nel secondo dopoguerra americano ha perso le coordinate di riferimento.

Il gigante (Giant, George Stevens, 1956) è l’ultimo film interpretato da Dean: il personaggio di Jett Rink, ricchissimo ex-bracciante del Texas che, nonostante la scalata sociale, deve fare i conti con un amore non corrisposto e con un’esistenza deprimente, si staglia solitario in questo affresco storico-familiare con alcune sequenze memorabili, una su tutte quella in cui si lascia inondare dal petrolio che zampilla dal terreno.

Queste interpretazioni, confuse e vulnerabili, da un lato riflettono la straordinaria capacità di Dean di tramutare in arte la propria sofferenza: la macchina da presa sembra essere il mezzo migliore con cui questo outsider supera il proprio disadattamento per dispiegare le proprie potenzialità espressive. Con l’esasperazione delle sue performance, Dean ha difatti tradotto inconsapevolmente il disorientamento che dilagava nell’era Eisenhower: era dai tempi di Rodolfo Valentino che gli Stati Uniti non assistevano, con un divo così anticonvenzionale e carismatico, ad un’identificazione di massa senza precedenti da parte degli spettatori più giovani. Dall’altro lato, l’inquietudine manifestata nel suo sguardo e nella sua mimica iperbolica contiene in nuce le istanze politico-sociali che nel decennio successivo sarebbero definitivamente conflagrate, come la diffusione della cultura hippy, la rivendicazione per i diritti civili delle minoranze etniche e la contestazione contro la guerra del Vietnam.

Volto emblematico di una nuova leva attoriale che ha rotto con i canoni della generazione precedente, Dean è diventato, a fianco di Montgomery Clift e di Marlon Brando, il capostipite del turbamento degli adolescenti, offrendo delle prove accomunate da una medesima matrice tematica, ossia la male anxiety, specchio della crisi della mascolinità stereotipata che grazie alla sua recitazione ha trovato piena rappresentazione sul grande schermo.

“Essere un buon attore non è facile. Essere un uomo è ancora più difficile. Voglio essere entrambi prima di morire.” 

Senza dubbio James Dean ha raggiunto questo obiettivo non solo nel firmamento delle stelle, ma anche nell’immaginario collettivo che ancora oggi lo ricorda come una delle personalità più magnetiche del costume moderno, promotrice di un binomio indissolubile tra la vita e l’arte, l’arte e la vita.

Leonardo Pacini

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