“In ogni tuffo è presente anche la paura”.
Lungo il ponte di Mostar si aggira una confraternita decisamente particolare: quella dei tuffatori. Non lottano per salvare il mondo (per quello ci sono già gli Avengers), ma per mantenere vive una tradizione e un’identità che si perdono e risorgono continuamente dalle acque della Narenta. Il loro costume lo potete comprare in un qualsiasi negozio sportivo, così come le mute che indossano quando l’acqua è particolarmente fredda, ma il loro coraggio e la loro forza vengono da molto più lontano: dalle generazioni che prima di loro hanno inseguito il gesto perfetto, da quelli che si sono tuffati un attimo prima dello sparo dei cecchini e dai sopravvissuti che ora si tuffano di fronte ai turisti ammirati.
Il tuffo dal ponte vecchio (o da quello ricostruito) è allo stesso tempo un rito di passaggio e il cerimoniale di una comunità intera: 24 metri e una manciata di secondi prima di toccare le acque fredde del fiume per affermare “Questo siamo noi”.
“In tutto il mondo puoi comprare souvenir e mangiare qualcosa, ma solo qui puoi vedere i tuffi dal ponte.”
Mostar è il ponte che univa, che è stato usato come simbolo per dividere e che prova a rinascere nella difficile situazione della Bosnia Erzegovina dei nuovi anni ‘20. Il tuffo, la sospensione, l’attesa sono metafore agrodolci della condizione di questa città.
Daniele Babbo, in questo documentario, entra per qualche attimo nella vita di queste persone, ci porta dietro le quinte di quello che ad uno sguardo superficiale è solo uno spettacolo per la massa di turisti che ogni estate visita Mostar.
Dietro quel gesto che unisce la pietra, l’aria e l’acqua si celano le storie dei nonni che si buttavano negli anni di Tito, le ferite ancora da rimarginare di chi ha vissuto la guerra, il ricordo di chi non è tornato, le ansie per il futuro e le incognite di chi sa che non si potrà tuffare per sempre. “Se ci pensi troppo non ti butti più”, dicono i più esperti, una massima che per i giovani vale anche quando in gioco c’è la possibilità di cambiare aria e di cercare nuove opportunità altrove.
I tuffatori provano a tenere insieme i pezzi di un’identità precaria con uno spirito a metà tra quello di una squadra di calcetto e quello di un dojo. Nelle loro giornate ci sono bancali di sigarette e di lattine di birra, conti da far quadrare, registrazioni delle ultime imprese e momenti di concentrazione zen prima del tuffo. Sanno che lo spettacolo che offrono è una parentesi per raggranellare qualche soldo, per i pochi anni in cui dura la loro carriera, e poi chissà… forse arriverà uno sponsor o un lavoro in Germania o in Norvegia, sarà come tuffarsi in un altro mondo con i cellulari a fare da ponte tra chi è partito e chi è rimasto.
I ponti si possono costruire, distruggere e poi ricostruire… l’importante è quello che si vuole fare con questi ponti. Tra tutte le opzioni, tuffarsi è la più affascinante, un gesto liberatorio e un modo per esorcizzare le difficoltà della vita.
Marco Lera