In un teatro di Atene, sta avendo luogo una rappresentazione in chiave moderna dell’Orestea di Eschilo. Sulla scena, dentro il palazzo di Argo (un enorme cubo di vetro), gli attori stanno concludendo l’Agamennone. Cassandra, prossima alla morte, prevede il ritorno di Oreste e la sua futura vendetta.
Improvvisamente, si spengono le luci delle persone armate, vestite di nero, irrompono silenziosamente nella sala, uno di loro si avvicina al proscenio e portando il microfono alla bocca esclama: «Buonasera, ci scusiamo per l’interruzione. Lo spettacolo riprenderà al più presto. La scorsa notte siamo usciti, ed io ho ballato con una ragazza fino all’alba. Noi siamo il Coro. Da questo momento in poi, saremo la vostra guida per stasera […]». Poi invita il pubblico a salire sul palco perché lo spettacolo possa continuare.
Il titolo del film, Interruption, riecheggia fin dalle prime battute del personaggio senza nome, a capo del misterioso coro, che chiameremo corifeo. Una volta salito sul palcoscenico, esso si scusa, infatti, col pubblico in sala per l’interruzione.
Tutto il film è colmo di riferimenti, più o meno velati, alla tragedia greca classica. A cominciare dal fatto che il corifeo faccia ammenda agli spettatori; ciò è significativo, dato che fin dai tempi antichi il coro era percepito come un’interruzione inopportuna e superflua dal pubblico, e come un ostacolo per gli attori. Ora, che fosse una presenza inutile non è del tutto vero: il coro, costituito da attori in abiti semplici e omogenei, svolgeva spesso una funzione drammatica, dialogante con gli attori e col pubblico che in esso riconosceva persone più vicine alla propria condizione, che non nelle figure eroiche in scena.
In Interruption, i membri del coro, salvo in una situazione in cui si rende necessario, non agiscono mai attivamente mostrando una volontà propria, ma ubbidiscono al corifeo che incarna per tutti loro l’identità singola del coro, un’entità corporea e unica, che nella lezione di Aristotele diventa essa stessa un attore che «deve essere parte del tutto e partecipare all’azione […]».
Il corifeo, rivolgendo le sue parole al pubblico e chiamandolo sul palco a recitare, dà vita a un’operazione metateatrale, nella quale si assiste a una sorta di ribaltamento rispetto ai canoni della tragedia classica: non è più la tragedia a essere imitazione di un’azione di vita, come vuole l’Aristotele della Poetica, ma è la vita che si adopera per rappresentare la finzione.
Una volta saliti sul palcoscenico, agli otto volontari viene chiesto di presentarsi, di dimenticare sé stessi e di mettersi al servizio dell’azione, condizionando le sorti dello spettacolo. Tra di loro, nel proseguire della trama, viene individuato un nuovo Oreste, che dovrà superare numerose prove, fino a riscrivere la tragedia eschilea nel segno del libero arbitrio per poi, inesorabilmente, andare incontro a un destino già scritto e al giudizio dell’Aeropago. A questo punto, ancora una volta, lo spettacolo necessita del pubblico, il corifeo chiede agli spettatori, ateniesi e quindi democratici per antonomasia, di farsi giudici e di partecipare attivamente, con un’alzata di mano, al rito teatrale per decidere la sorte di Oreste.
Per rispettare la struttura canonica della tragedia, il regista non si fa mancare l’inserimento di un deus ex machina, provvidenziale quanto tragico, che in un momento concitato, in cui tutto sembra prendere una piega inaspettata, ristabilirà l’ordine e riporterà l’azione sui binari originari. Lo spettacolo prosegue poi fino al momento della catarsi, concretizzata in scena in forma di pioggia purificatrice che cade sugli attori, e sul coro che si avvia in marcia verso il fondale. Applausi. Nero. Luce. In una sala da ballo cinque coppie danzano sulle note di un pianoforte. Titoli di coda.
Il regista greco Yorgos Zois, al suo esordio, utilizza sapientemente il mezzo cinematografico per indagare quello teatrale, e con l’annidamento di un medium nel medium realizza una sorta di meta-picture continua di quasi due ore. Il film, come si legge nelle note di regia, vuole rimandare a un fatto di cronaca che vide protagonisti il Teatro Dubrovka di Mosca e circa 850 civili presenti al suo interno, tenuti in ostaggio da quaranta militanti armati ceceni nell’ottobre del 2002 per quattro giorni consecutivi. Particolarità dell’evento fu che, durante i primi minuti dell’assalto, gli spettatori presenti in teatro pensarono che si trattasse di finzione scenica; il film si pone allora come una dilatazione di quei primi minuti di ambiguità, e come una riflessione sulle potenzialità del mezzo teatrale nel condizionamento della psiche umana e nella sua capacità di dare, a chi osserva e a chi osservando partecipa, un’impressione di realtà.
Un ragionamento che si estende anche, e più concretamente, alla struttura stessa della tragedia classica e in particolare a quella dell’Orestea di Eschilo, trilogia giunta fino a noi integra ma priva del dramma satiresco Proteo, di cui restano solamente pochi versi. Il componimento perduto era una composizione che doveva servire a risollevare gli animi degli spettatori, scossi dai tragici eventi appena visti. A questo proposito, faccio riferimento alla scena finale, in apparenza staccata dal contesto ma che si ricollega alle parole iniziali pronunciate del corifeo. Un film dai toni funesti e tetri, dalle musiche quasi del tutto assenti che lasciano spazio a sospiri, urla e al mormorio indistinto del pubblico. In questo contesto di omogenea cupezza, la sequenza finale, pensata dal regista, sembra andare verso una ricostruzione immaginaria del dramma perduto di Eschilo; un momento avvertito come necessario e riconciliante, fatto di colore, luce e suono.
Il film è stato presentato nel 2015 in occasione della 72ª edizione della Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia, nella categoria Orizzonti.
Tommaso Quilici
Bibliografia:
Aristotele, Poetica, Roma-Bari, Laterza, 1998.
H.C. Baldry, I Greci a teatro, Roma-Bari, Laterza, 1972.
Eschilo, Orestea, Milano, Rizzoli, 1995.