CORTOMETRAGGIO
Un’orda di randagi meticci si affolla nell’inquadratura e l’abbaiare incattivito riporta al ricordo dell’intro di Mondo Cane. Non sarà la voce narrante di Stefano Sibaldi a interrompere l’inquadratura, ma anche in questo corto la ripresa del reale non è a servizio del documentario. Anzi, va a ricordarci che “molte (altre) cose sono amare su questa Terra”.
Ringhi gutturali, istinti territoriali e bagni di sole assonnati contraddistinguono le abitudini tipo di un canile di Agadir in Marocco. Un ciclo vitale che, tra tentativi di accoppiamento e cucciolate multicolore, si svolge all’interno di un quadrato di terra bruciata. Al di là del muro di fango che lo delimita, qualcuno dei 750 cani in attesa di adozione cerca invano di scappare per raggiungere la prateria.
Halima Ouardiri si sofferma sui momenti di attesa e sulla ritualità del pasteggio, portando in luce una condizione esistenziale di reclusione e attesa. Senza cadere nell’inganno di trovare somiglianza tra l’umano e l’animale (semmai l’affinità è nelle dinamiche di branco), risulta un espediente semplice ma efficace per contestualizzare l’attuale fenomeno migratorio.
Ma allora si tratta del solito, didascalico corto a tema sociale che infesta inevitabilmente tutti i festival, per di più con i cagnolini pucciosi?
Al contrario, la carrellata di testo pietistica “effetto pubblicità progresso”, solitamente in coda o in testa al film, viene di buon grado schivata per cogliere invece un’occasione diegetica di fornire la chiave di lettura. Clebs è una soddisfacente dimostrazione che bastano anche delle idee semplici, persino senza sceneggiatura, senza attori, ma solo attanti, per portare all’attenzione tematiche sociali d’attualità senza scadere nel film a tesi trito e ritrito.
Giulia Silano
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