«[…] Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio

non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.

Con te le ho scese perché sapevo che di noi due

le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,

erano le tue.». 

(E. Montale, Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale, in Satura, Milano, Mondadori, 1971)

In una valle montana sulle Ande ecuadoriane, all’apparenza inaccessibile, vive una popolazione affetta da un morbo che colpisce la vista degli abitanti, rendendoli ciechi fin dalla nascita. Se, da un lato, il passare degli anni ha permesso loro di adattarsi alla nuova condizione di cecità, rinnovando il proprio stile di vita, dall’altro, complice una lunga stratificazione culturale durata quindici generazioni, ha fatto sì che si dimenticassero delle proprie origini, cancellando di fatto l’esistenza del mondo esterno dal loro orizzonte mentale, nonché la loro primigenia condizione di salute. A sconvolgere gli equilibri di quella società rimasta rurale, quasi primitiva, giunge in paese Nuñez, trascinato da una slavina nel tentativo di scalare una delle vette più alte della catena. 

Nuñez dapprima tenta invano di istruire quel popolo, così reticente alla conoscenza, sul senso perduto della vista e sull’esistenza di un mondo esterno tutto da (ri)scoprire, trovandosi a dover mettere in pratica il difficile esercizio dello showing seeing [1] (ossia ‘mostrare il vedere’),  per poi provare senza successo, anzi aggravando la propria condizione, a volgere la situazione a proprio vantaggio sfruttando la sua presunta superiorità sensoriale, e ripetendosi come un ritornello un vecchio detto che recita: «Tra i ciechi l’orbo d’un occhio è re». 

Lo scalatore Nuñez, divenuto esploratore e per un momento conquistatore improvvisato, come un moderno Colombo si trova a fare i conti con un popolo fino ad allora sconosciuto. Ma, a differenza del navigatore genovese, refrattario ad instaurare un rapporto con l’Altro – e in ciò molto diverso dall’altrettanto noto Cortés –, Nuñez trova nella misurazione della differenza e nell’ incontro-scontro con l’alterità un attaccamento alla vita celato nel suo inconscio. Infine, resosi conto di cosa si è lasciato alle spalle nella caduta, nemmeno l’amore per una giovane donna riuscirà a farlo recedere dal desiderio di riemergere dall’abisso in cui è precipitato.

Il radiodramma, un prodotto del Gruppo di lavoro artistico (GLA) del Teatro Metastasio, è un adattamento, vicinissimo all’originale, di un celebre racconto di H. G. Wells, pubblicato sulla rivista inglese ‘The Strand Magazine’ nel 1904, col titolo Il paese dei ciechi. Chiara Callegari (regista), ricalcando le orme di Welles – autore e speaker di una nota radiocronaca andata in onda nel 1938 e modellata su La guerra dei mondi, sempre di Wells – si attiene fedelmente al breve racconto dell’autore britannico, lo asciuga per quanto è possibile nel discorso indiretto e privilegia lo scambio dialettico fra gli attori. Lo spettatore, come uno degli abitanti di quel paese sperduto, privato dello sguardo, è costretto ad affinare l’udito, ma ne è ripagato dal magnifico lavoro fatto sul suono. Regista e attori si sono interrogati a lungo sulla resa ritmica e sonora del radiodramma, e per cercare di descrivere con la giusta partitura i singolari personaggi del racconto, hanno «[…] lavorato con strumenti più o meno convenzionali, con chitarre elettriche, bassi, loop stations, sintetizzatori, ma anche con maracas, e forchettoni per l’arrosto suonati con archi di violino» [2], cioè con tutto ciò che poi ha permesso loro di trovare le sonorità più azzeccate.

Tommaso Quilici

Note:

[1] W. J. T. Mitchell, Showing Seeing, «Journal of Visual Culture», 1.2, 2002, pp. 165-181.

[2] Claudia Callegari nell’introduzione al radiodramma (mia la trascrizione).
H. G. Wells, Il paese dei ciechi, Milano, Mursia, 1966.

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