L’elemento grottesco è una componente fondamentale di un certo cinema italiano orientato alla critica dei costumi attraverso un’ironica mostruosizzazione dei luoghi comuni nazionali. Attacchi che si mostravano scabrosi nei contenuti, ma perlopiù ancorati ad un confortevole ambiente borghese che non vedeva trasfigurata la propria immagine, mantenendo una solida base di verosimiglianza. Quello che Mauro Bolognini compie con il suo film del 1977 Gran Bollito è un ulteriore passo nella direzione di una commedia nera che non si limita a trattare temi repellenti, ma si lascia contaminare dagli stilemi del cinema dell’orrore.

La presenza di una tetrissima Shelley Winters (le cui potenzialità in quanto presenza disturbante erano già emerse negli anni precedenti, grazie a registi come Roman Polanski e Roger Corman) nei panni della protagonista è un segnale inequivocabile circa il tono greve che l’autore punta ad attribuire all’opera. All’eloquente figura della protagonista, fa da sfondo un apparato estetico quanto mai smorto: le lugubri scenografie di Danilo Donati vengono ulteriormente incupite dalla smorta e contrastata fotografia di Armando Nannuzzi, in un tripudio di anguste ambientazioni dark. In questo basso continuo dalle tinte macabre, si innesta il contrappunto della commedia, che oltre a stemperare i toni permette l’emersione del provocatorio sottotesto che rivela il film come la storia di una maternità strenuamente inseguita ed infine degenerata in un sentimento morboso.

L’elemento comico non rimane solamente ancorato alla sagace scrittura di Nicola Balduccio (autore della sceneggiatura e affiancato da Luciano Vincenzoni in fase di stesura del soggetto, ispirato alla reale vicenda della “Saponificatrice di Correggio“), ma si esprime anche attraverso espedienti non particolarmente comuni nel canone della nostra commedia nazionale. Il più evidente tra questi è il travestitismo: le tre vittime della scaramantica compulsione omicida della protagonista sono interpretate da nientemeno che Alberto Lionello, Renato Pozzetto e (rullo di tamburi prego…) Max Von Sydow!

Una scelta che reca con sé una sospensione dell’incredulità in grado di riportare immediatamente lo spettatore alla giusta distanza dal racconto e introducendolo al clima surreale attraverso cui il film riuscirà miracolosamente a districarsi per la sua intera durata. Un delicato equilibrio tra terrore e assurdo che pare concepito da un maestro dello humor macabro e che invece giunge da un autore che sulla rivisitazione del melodramma ha costruito le colonne portanti della sua filmografia.

Dopo un esordio in vesti di mestierante alla regia del caciarone Ci troviamo in galleria (1953), Bolognini ha infatti trovato la sua vocazione poetica nei drammi dell’incomunicabilità come La vena d’oro (1955), La corruzione (1963) o il capolavoro Il bell’Antonio (di cui già abbiamo avuto modo di parlare, 1960). Gran Bollito è il film in cui Bolognini conferma la sua sbalorditiva versatilità e dimostra di saper adattare il proprio cinema a prodotti differenti, adeguando il proprio sguardo a generi apparentemente lontani dalla sua zona di comfort: una tragedia narrata in chiave farsesca in cui si riesce ad intravedere il dolore dei sentimenti straziati e delle sofferenze non verbalizzate. Una storia folle e allucinata, ma al contempo paurosamente esatta nello scandagliare le estreme connotazioni degli affetti umani.

Andrea Pedrazzi

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