Con una vocazione alla versatilità che permea la sua carriera sin dagli esordi, segnati da un’alternanza di generi e toni diversi quando non addirittura opposti, Mauro Bolognini si presenta come uno degli autori più talentuosi e completi del nostro cinema. Una regista caratterizzato da un solido estro creativo cui troppo di rado vengono riconosciuti gli innegabili meriti. In un’epoca in cui le tragedie dell’Italia coeva venivano rappresentate con le sfumature leggere e graffianti della Commedia all’italiana, Bolognini restituiva i tormenti contemporanei attraverso il linguaggio più rigoroso ed enfatico del melodramma.

Il genere, che nella sua forma originaria poggiava sull’esasperazione di pulsioni e desideri femminili mutilati, viene rimodellato dall’autore romano per diventare indagine sulla mancata esplosione della virilità maschile. Questo è il tema che permea i rigidi fotogrammi de Il bell’Antonio, capolavoro di narrazione di sentimenti incomunicabili e ricerca di una libertà (a)sessuale soggiogata dai dettami del patriarcato, statuto oppressivo tanto nei confronti delle donne, private di capacità decisionale, che degli uomini chiamati irrinunciabilmente a ricoprire il loro ruolo di agente attivo nella società. Un dramma dai tratti sinuosi attraverso il quale si intravede un attacco di stampo intimamente politico, nel quale è possibile riconoscere la feroce indole anarchica di Pier Paolo Pasolini, autore insieme a Gino Visentini del lavoro di adattamento per immagini del romanzo di Vitaliano Brancati.

E non è poi certamente un caso che l’attore chiamato ad incarnare questa tumultuosa fragilità emotiva sia quel Marcello Mastroanni che, contemporaneamente all’uscita del film di Bolognini, gremiva le sale nazionali affermando il suo statuto di sex symbol ne La dolce vita di Federico Fellini. In una prova attoriale di pari valore, ma diametralmente opposta sul piano degli stati emotivi veicolati, Mastroianni interpreta Antonio Magnano, giovane catanese appartenente ad una famiglia benestante e particolarmente ambito dalla popolazione femminile. Innamoratosi della dolce ed attraente Barbara Puglisi (Claudia Cardinale), che come lui vanta una rispettabile ascendenza, Antonio decide ben presto di sposarla con la benedizione delle rispettive famiglie. Il matrimonio avrà tuttavia una durata esigua, a causa del dramma che silenziosamente (non) si consuma tra le mura domestiche: lo straripante sentimento di affetto che Antonio nutre nei confronti della moglie non riesce ad essere convertito in un’altrettanto accesa attrazione sessuale, motivo per cui a dodici mesi dalle nozze Barbara risulterà ancora “intatta”. Una situazione inconcepibile per il buon costume dell’epoca, tanto da necessitare dell’intervento ecclesiastico così da porre termine all’infausta unione.

La forza di questo racconto risiede nella capacità di esplicitare le ricadute che questa rivelazione genera sulle figure che circondano i due coniugi, generando una dicotomia tra l’animo innocente di chi vorrebbe essere libero di amare a suo modo e la tirannia di un contesto prevaricatore disposto ad accettare solamente ciò che rientra nei canoni da esso predisposti. A farsi immagine ti tali forze conservatrici è su tutti il padre di Antonio, cui Pierre Brassuer concede il taglio prossemico adeguato alla raffigurazione del senso di vergogna e onore mutilato cui il personaggio è soggetto. Uno scontro generazionale in cui il nuovo non pare avere voce in capitolo; il grido straziante dell’animo disperato di Antonio resta inascoltato, inesistente per chi si adopera con ogni sudicio mezzo pur di mantenere intatti gli arcaici meccanismi che regolano il buon nome. Il dolore del protagonista viene così lasciato per lo più alle immagini, inquadrato in penombra, con tagli di luce che lacerano la figura di Antonio.

Un trauma che assume i connotati di una resa, espressa magnificamente dall’ultima inquadratura in cui lo sguardo cinematografico supera la figura umana per indugiare sul suo riflesso, a comunicare il nulla che pervade l’animo di un uomo a cui il mondo non concede la libertà di esistere.

Andrea Pedrazzi

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